La “corona” delle altre religioni

“Il motivo più importante per riproporre con forza la pratica del rosario è il fatto che esso costituisce un mezzo validissimo per favorire tra i fedeli quell’impegno di contemplazione del mistero cristiano” Il rosario si pone nella migliore e più collaudata tradizione della contemplazione cristiana”. Cosi Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae (n° 5). Effettivamente, nella sua storia quasi millenaria, la pratica di far scorrere le perline accompagnate da preghiere sempre uguali mostrò ben presto la sua valenza meditativa, che conferisce all’anima raccoglimento e concentrazione sui misteri principali della fede cristiana. La preghiera ripetitiva aiuta ad assimilare le verità che vanno sempre più approfondite. Non senza sorpresa, si scoprono forme di preghiera simili al rosario in molte tradizioni religiose, ad esempio in India. Non è facile risalire alla sua origine, ma già nel periodo del bramanesimo del secondo millennio prima di Cristo era in uso il mala, che in sanscrito significa “la catena di fiori”. Ancora oggi gli indù lo usano invocando, per esempio, vari nomi delle divinità Shiva o Vishnu. Nella tradizione sikh, invece, il mala viene usato nella preghiera ripetendo le lodi a Dio. Era composto di 108 grani, poi divenne di 54, e nel tempo moderno si usa quello limitato a 27. È probabile che tale usanza sia arrivata da lì in Europa. Nel buddhismo ” L’uso del mala appare dal II-III secolo d.C. Il Sutra dell’albero del sapone racconta, però, un episodio di come esso sia stato tramandato dallo stesso Buddha: “Un giorno il re di Vaishali, chiamato Haruri, mandò un messaggero a Buddha che stava predicando al Picco dell’avvoltoio e gli fece chiedere: “Nel mio paese imperversano la carestia e l’epidemia. Il popolo è molto afflitto. Ma la miniera della Legge è troppo profonda e troppo vasta per metterla in pratica. Mi insegni qual è il punto principale?”. Buddha ebbe tanta compassione e disse: “C’è un mezzo ingegnoso di salvezza per tutte le generazioni future. Preparate una collana infilando insieme 108 semi dell’albero del sapone e tenetela sempre con voi. Recitate con tutta l’anima i nomi di Buddha, della Legge e della Sangha, contando ogni volta un grano. Così facendo estinguerete la sofferenza che nasce dai desideri mondani e otterrete i frutti del cielo. Se continuerete con la recita riuscirete a liberarvi dai 108 desideri mondani e otterrete la ricompensa suprema”. Il Buddha, la Legge (dottrina del Buddha) e il Sangha (la comunità dei fedeli) sono gli elementi essenziali, le fondamenta spirituali del buddhismo, conosciuti come i “tre tesori”. Da allora i fedeli buddhisti, per esprimere la loro fede, recitano ancora questa formula di preghiera: “Noi ci rifugiamo nel Buddha, noi ci rifugiamo nella Legge, noi ci rifugiamo nel Sangha”. Parole che significano: “Noi dipendiamo dal Buddha, dalla verità da lui predicata e dalla comunità di persone che, con la loro mente unita nella stessa fede, praticano il suo insegnamento. Noi ci consacriamo a questi tre tesori”. Oggi il mala è usato soprattutto nel buddismo tibetano e nei paesi del buddismo Mahayana (Grande veicolo), come Cina, Corea e Giappone. È meno usato nel buddismo Theravada (Scuola degli anziani), che sottolinea lo sforzo personale, senza appoggiarsi su altri mezzi, per raggiungere la perfezione. Lungo i secoli sono stati sviluppati diversi modi di usarlo. Ogni scuola ha il suo metodo, ma tutte sono indirizzate a superare le passioni, i desideri egocentrici e l’attaccamento a sé, e a trovare la pace interiore fino ad arrivare al supremo ideale buddista, il Nirvana. Uno dei metodi tradizionali è quello di suddividere in tre parti questi grani: nel primo momento, passando le dita su 56 grani ci si concentra sulle virtù di Buddha; nel secondo momento, passando le dita su 38 grani si contempla la Legge; nel terzo momento, passando le dita su 14 grani si concentra sulla Sangha. Mentre si passa da un grano all’altro, si regola la respirazione, cioè si deve aspirare ed espirare. In Tibet si recitano i mantra, formule sacre, con l’aiuto del mala tipico del posto, composto di 108 grani. Ma il numero di grani varia da 27 fino a 1.080. Come materiale si usano semi, frutti d’albero, legno, cristalli, pietre preziose, perle” In Giappone esiste una solenne cerimonia con un mala composto di grani giganti. Contandoli – si dice – si acquistano tanti meriti. A volte si può trovare sulle strade di Kyoto dei laici che aspettano il passaggio dei monaci per essere toccati sulla testa con il mala. Le leggende raccontano che i suoi grani allontanano le calamità, guariscono le malattie, chiamano la pioggia in periodo di carestia, e fanno tremare i diavoli. Si dice anche che un abate affrontò il ladro agitando un mala di cristallo. Il mala di un altro abate brillò come una stella nella notte nera. Non solo i monaci ma anche i laici lo portano con sé. È come un arnese che converte i desideri mondani in quelli del bodhisattva, colui che vive tutto proteso per la felicità degli altri. L’uso del mala li aiuta a vivere i precetti del bodhisattva: non fare il male, fare solo il bene. Tenendolo sempre con sé, si cerca di immettere dentro di sé il senso di essere buddhista, di purificare il cuore e l’azione, e di guidare gli altri in questa via. Solo tenerlo in tasca aiuterebbe a superare la rabbia o a resistere alla tentazione. . . .e nell’Islam Chi ha viaggiato in Medio Oriente o ha incontrato dei musulmani di ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca, avrà notato degli uomini che tengono in mano una corona (subha o tasbîh) che sfilano rapidamente tra le loro dita. Ne esistono due tipi principali: quella completa con tre serie di 33 grani , o quella con tre serie di 11 grani. Esse sono separate da due grani più grandi e il tutto è chiuso con grano più grande come un piccolo manico (yad). La corona è stata ispirata da altri strumenti esistenti in Oriente, e accettata gradualmente dai musulmani. Questa corona non ha una funzione unica ma può essere utilizzata in diversi modi. Attualmente, la più diffusa è la ripetizione delle tre giaculatorie “Gloria a Dio” (SubHan Allah) – con il senso della sua assoluta trascendenza -, “Lode a Dio” (Al-Hamdu lillah), e “Dio è più grande” (Allahu akbar), trentatré volte o undici volte ciascuna. “Dio possiede i nomi più belli, invocatelo dunque con quei nomi “, dice il Corano (7,180). Il modo normale con cui il musulmano soddisfa a questo versetto è con la preghiera rituale in cui alcuni nomi di Dio vengono nominati più volte. Ma già nei primi tempi dell’Islam, i credenti vollero aggiungere altre invocazioni contandole con delle pietre o dei noccioli di datteri. La tradizione musulmana riporta il detto seguente: “A Dio appartengono novantanove nomi, cento meno uno; perché lui, il Dispari (= l’Unico) ama ciò che è dispari”. Da qui sono nate diverse liste di nomi quasi tutti presi dal Corano e proviene il numero dei grani della corona. Al giorno d’oggi pochi li conoscono a memoria, ma chi lo fa utilizza qualche volta anche la corona. Secondo un’altro detto della tradizione, chi conosce i novantanove nomi di Dio avrà il paradiso. Il recitare i nomi di Dio (o attributi) aiuta a “rivestirsene” per poi imitarli nella vita quotidiana ed è un aiuto sulla strada della loro interiorizzazione. “Rivestitevi dunque delle buone abitudine d’Allah” La perfezione ultima, per il credente, consiste nell’avvicinarsi al suo Signore facendo suo gli attributi che meritano ogni lode: la scienza, la bontà, la benevolenza, la beneficenza, la misericordia, il buon consiglio, l’incoraggiamento al bene e la preservazione dal male”. Nelle confraternite un modo essenziale per progredire sul cammino spirituale è il recitare insieme, o singolarmente sotto la stretta guida di un maestro, delle litanie proprie a queste confraternite chiamate zikr. Con o senza la corona, si ripetono queste invocazioni 300, tremila, seimila, 12 mila o 70 mila volte. In questi casi, è richiesta una preparazione spirituale: “Rinunciare al mondo per condurre una vita ascetica”, secondo Ghazâli, e la retta intenzione del cuore, nonché una posizione speciale del corpo e una coordinazione delle parole con il respiro. Si raccomanda anche al credente di portare il vestito rituale e di utilizzare un profumo speciale. È da notare come per tutte queste forme di preghiere ripetitive sia valida la regola generale dell’Islam: “Le azioni valgono secondo le intenzioni ed ogni uomo avrà secondo il suo intento “. Questa intenzione può essere un desiderio di purificazione o di avvicinamento a Dio o di lode. . .

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