La contadina e lo scrittore

La storia vera di Anisja che ispirò Tolstoj. I valori di un mondo legato alla terra e la casa-museo del grande narratore

Una delle attrazioni turistiche più visitate della Russia europea centrale, dodici chilometri a Sud-Ovest della città di Tula, è Jàsnaja Poliàna, la tenuta dove Lev Nikolaevič Tolstoj trascorse la propria infanzia e, dopo gli anni di Mosca, l’ultimo cinquantennio della vita; dove elaborò capolavori come Guerra e pace e Anna Karenina, e dove gli nacquero tredici figli. Lo scrittore aveva ereditato dalla madre, la principessa Volkonskaia, l’antica residenza, ma da giovane aveva dovuto venderla per pagare i debiti di gioco; gli era rimasta solo la dépendance, una bianca palazzina abbastanza grande, tuttavia, da poter accogliere la sua numerosa famiglia da sposato.

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Lëvocka, come veniva affettuosamente chiamato Lev dalla moglie Sof’ja Andreevna, amò visceralmente “Radura serena” (questo il significato di Jàsnaja Poljàna): «Senza Jàsnaja Poljàna – dichiarò – difficilmente posso raffigurarmi la Russia… Senza quel villaggio vedrei forse più chiaramente le leggi generali riferibili alla mia patria, ma non l’amerei con passione». Immerso nella silente campagna russa, il conte Tolstoj non solo scrisse romanzi che gli valsero l’ammirazione universale e, ripudiati quelli nell’ultimo tratto della sua inquieta esistenza, scritti di argomento filosofico-religioso e di denuncia sociale che gli attirarono, fra l’altro, la scomunica della Chiesa ortodossa. E neppure si limitò a intrattenersi con alcune tra le figure culturali ed artistiche più di spicco del suo tempo: Čajkovskji, Cechov, Turgenev, Gorkji, i pittori Valentin Serov e Ilya Repin, Cesare Lombroso… Alla stregua dei suoi mugik (contadini), di cui abitualmente indossava l’abito, l’autore di Resurrezione si dedicò spesso anche ai lavori dei campi: come quando curò personalmente la realizzazione di un frutteto di 8.850 meli, oggi centenari.

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Com’era una giornata-tipo di Tolstoj? Si svegliava alle sette del mattino, iniziava con esercizi fisici e prima di dedicarsi all’attività letteraria faceva una passeggiata nel parco: quello stesso dove, nel folto di un bosco di betulle, per suo desiderio venne sepolto sotto un semplice tumulo di terra privo di croce e di epitaffio, dopo la morte avvenuta il 7 novembre 1910 nella stazioncina di Astàpovo, in fuga da quella famiglia nella quale ormai si sentiva un estraneo, trovandovi più guerra che pace.

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Quanto alla residenza, venne trasformata in un museo la cui prima direttrice fu Aleksandra Tolstaja, una delle sue figlie, alla quale per anni subentrò un altro dei discendenti, Vladimir Tolstoj. Qui, tra mobili, arredi e oggetti personali, tutto sembra rimasto come all’epoca di Tolstoj: la sala da pranzo con la tavola imbandita, gli orologi a pendolo, i due pianoforti e, alle pareti, i ritratti di famiglia; lo studio con la poltrona mobile e la scrivania dove egli lavorava; la biblioteca ricca di ben 22 mila volumi; la camera da letto col comodino sul quale è la copia dei Fratelli Karamazov che stava leggendo – lui che mai era riuscito a incontrarsi con Dostoevskij – prima di allontanarsi segretamente, la notte del 28 ottobre 1910, per l’ultimo suo viaggio. Suggestionato da questi ambienti che recano così cospicue tracce della presenza umana, il visitatore può facilmente immaginare gli aspetti minuti e quotidiani della vita dello scrittore e dei familiari.

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E quella dei suoi contadini? Tolstoj, che tanto ebbe a cuore la loro emancipazione sociale e che per i figli dei mugik aveva fatto costruire anche una scuola, la descrisse non solo nei vari romanzi e racconti, ma anche in tanti altri scritti, diari e lettere. Oggi però possiamo accedere anche alla testimonianza diretta di una di loro, Anisja, che sarebbe rimasta ignota se egli non ne avesse reso la vicenda emblematica, elevandola quasi al rango di eroina del quotidiano, a portavoce della schiera infinita di altre Anisja. Fu lui infatti a incoraggiare la cognata Tat’jana Andreevna Kuzminskaja, nei suoi soggiorni a Jàsnaja Poljàna, a scriverne la storia, oggi pubblicata da Casagrande, editrice di Bellinzona, col titolo Memorie di una contadina.

L’autrice passò giornate intere ad ascoltare e trascrivere con fedeltà assoluta, riproducendo anche la parlata infarcita di dialettismi, detti e proverbi, le confidenze di questa semplice donna all’epoca in cui frequentava la casa padronale. Nata intorno al 1845 in un minuscolo villaggio vicino a Tula, Anisja era «una ragazza semplice, vitale, piena di quella spensierata gioia che fa sognare alle giovani donne le cose buone di una vita: un amore, una casa, dei figli». Venne costretta invece a sposarsi controvoglia con Danilo, un poveruomo senza carattere né risorse, ma di cui col tempo finì per innamorarsi fino a seguirlo assieme ai due figlioletti nella deportazione in Siberia, dopo la sua condanna per furto. Non senza prima aver sopportato le perfidie di paese, subìto una tentata violenza ed essere caduta nell’adulterio.

Anisja, un’esistenza consumata dalla fatica della sopravvivenza, alle prese con la miseria, con la disgrazia, con la crudeltà della gente, eppure capace di semplici e umili gioie: quelle tanto spesso negate a chi, appartenendo alla società del benessere, ha perso i contatti con la natura e i suoi valori.

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Tolstoj – scrive Isabella Panfido, curatrice della prima traduzione integrale della sua storia – «partecipò alla correzione del testo, lavorandoci per giorni interi, cercandone il titolo, intervenendo direttamente su alcuni passi come ad esempio la fine del racconto, la deliziosa immagine della culla della bimba di Anisja ninnata dal vento, il trasformarsi del sentimento da indifferenza ad amore verso Danilo, il pianto liberatorio quale dono di Dio nel dolore del lutto».

Non a caso, alla sua pubblicazione, questa toccante testimonianza della Russia prerivoluzionaria venne giudicata dall’intelligencija russa il miglior racconto popolare del tempo. Colpiscono, in questa vicenda, i sentimenti elementari, la forza dell’amore, il senso di concretezza tipico di chi è saldamente ancorato alla terra, la sapienza e il senso di religiosità degli umili, l’humour anche nei momenti più cruciali, l’importanza data ad ogni dettaglio del quotidiano, le colorite descrizioni di vita domestica, di rituali di matrimonio, di ricorrenze solenni: elementi tanto apprezzati da Tolstoj e oggi testimonianze preziose di un mondo pressoché sparito.

Il problema centrale dell’uomo moderno è la perdita delle radici e la divisione delle comunità in atomi isolati. Servono «pensieri e spunti a cui ispirarsi per guarire le zone di deserto interiore favorito dal deserto di cemento che sempre più spesso ci circonda». E storie come quelle della contadina di Tolstoj sono fra quelle in grado di offrircele.

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