La Cina dice stop

La Corte Suprema del Paese che più ricorre alla pena capitale ha chiesto una sospensione di due anni delle esecuzioni. Tre domande a Mario Marazziti, della Comunità di S. Egidio
Pena morte cina

È il Paese più tristemente famoso per il largo uso della pena di morte: non ci sono dati ufficiali né sul numero di condanne a morte né su quello delle esecuzioni – considerato segreto di Stato – ma le varie ong impegnate sul campo le stimano tra le 3 e le 10 mila, oltre la metà del totale mondiale. Eppure è anche uno degli Stati che ultimamente ha fatto i passi avanti più significativi per fermare il boia: dopo aver ridotto da 68 a 55 i delitti punibili con la pena capitale lo scorso febbraio, la Corte Suprema del Popolo ha chiesto a tutti i tribunali di sospendere per due anni le esecuzioni, se non per “un piccolo numero di criminali che hanno commesso reati estremamente gravi”. Il termine di due anni non è casuale: è infatti il tempo generalmente necessario perché la sentenza venga commutata in ergastolo in caso di buona condotta. È l’alba di un nuovo giorno per il fronte abolizionista? Lo abbiamo chiesto a Mario Marazziti, portavoce della Comunità di S. Egidio e membro del Comitato direttivo della World coalition against death penalty (Coalizione mondiale contro la pena di morte).

 

 

Il fatto che le condanne a morte vengano generalmente tramutate in ergastoli fa ritenere che il numero di esecuzioni si manterrà più contenuto anche dopo i due anni di sospensione: condividete questa fiducia?

 

«Per quanto non ci siano numeri ufficiali, i pochi dati certi consentono di dire che, per quanto la Cina sia ancora il Paese dove più avvengono le esecuzioni, è anche quello in cui più velocemente si stanno riducendo. Questo è il quarto intervento in due anni della Corte Suprema, che denota una decisa volontà di limitare le condanne a morte soprattutto per quanto riguarda la giustizia periferica, dove l’insufficiente numero di legali esperti fa sì che queste siano spesso approssimative. Per cui non si tratta solo di fiducia, ma anche di dati di fatto».

 

 

Eppure lo scorso 17 maggio è stata eseguita una condanna a morte prima sospesa, e il 28 maggio la stessa Corte Suprema ha chiesto un’applicazione più severa della pena capitale nei casi di frode alimentare: non si tratta di mosse contraddittorie?

 

«In realtà no perché, come dicevo, uno degli scopi principali è ridurre gli squilibri tra centro e periferia: l’alto tasso di sentenze arbitrarie, errori e ricorsi causa infatti notevoli tensioni all’interno del sistema giudiziario del Paese. Questo è anche un modo per eliminarle».

 

 

Che impatto può avere sui Paesi che ancora mantengono la pena capitale il fatto che proprio la Cina abbia preso una decisione così forte?

 

«È una conferma che una progressiva abolizione è possibile senza conseguenze pesanti per il Paese. La pena di morte non è una questione di orgoglio nazionale, come pare ancora sia in Stati come Iran o Singapore».

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