La Chiesa ha un modello, la Trinità

Due giovani teologi premiati dalle accademie pontificie per le loro ricerche sulla “oculata fides”, la fede che vede. Tra di loro Alessandro Clemenzia e la sua tesi pubblicata da Città Nuova. Piero Coda rilegge la “Evangelii Gaudium”
Alessandro Clemenzia

«Non è comune vedere radunati in una stessa aula tanta scienza e tanta, si spera, sapienza», mi diceva un giovane collega. Effettivamente nell’aula magna dell’istituto Pio X erano riuniti i vertici di tutte le accademie pontificie, da quella di teologia a quella dedicata a Tommaso d’Aquino, da quella delle Belle Arti, a quella di archeologia, passando per quella del culto dei martiri e quella della Latinitas, quella mariana e quella del Pantheon, accademie riunite per il loro dies academicus, il 18° della serie, la maggiore età. C’erano pure il card. Ravasi e il segretario di Stato, mons. Pietro Parolin, ormai pienamente e umilmente (non sono aggettivi scelti a caso) installato nella sua carica di “segretario papale”.

Se il primo – con la consueta dotta e affabile locuzione che si nutre di una portentosa memoria – ha fatto uno “spericolato slalom” tra i molteplici significati dei verbi “vedere” e “guardare”, in lingue e sensi diversi, mons. Parolin, dopo aver ricordato una catechesi di papa Luciani, ha voluto leggere il messaggio del papa, che non è rimasto nel vago: «La fede conosce – ha scritto citando la Lumen Fidei – in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce». Aggiungendo: «Una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Se però la verità è la verità dell’amore, se è la verità che si schiude nell’incontro personale con l’Altro e con gli altri, allora resta liberata dalla chiusura del singolo».

Tradizione vuole che nel corso di queste sedute pubbliche vengano premiate delle ricerche degne di attenzione. Quest’anno è stata premiata Maria Silvia Vaccarezza, per una ricerca sulla “saggezza pratica” tra Aristotele e Tommaso, assieme ad Alessandro Clemenzia, giovane sacerdote della diocesi di Firenze e docente all’istituto universitario Sophia di Loppiano, per la sua tesi di dottorato Nella Trinità come Chiesa. In dialogo con Heribert Mühlen, edito da Città Nuova.

Cosa afferma Clemenzia? Che di fronte alla crisi che ha investito la società e in modo specifico le relazioni personali, caratterizzate oggi da una grave frammentarietà, bisogna chiedersi se abbia senso parlare ancora di “noi” e cosa significhi questo “noi” in ambito ecclesiale. Nella proposta teologica di Mühlen – nella quale il “noi” ecclesiale trova la sua origine strutturante e la sua forma vitae nel “Noi” trinitario – si coglie uno stimolante e originale punto di partenza e di riferimento, con particolare attenzione al contesto storico-culturale contemporaneo.

È stato Piero Coda, preside dello stesso istituto universitario Sophia, a chiudere la seduta pubblica con una vivace e profonda analisi dell’esortazione apostolica post-sinodale di Francesco Evangelii Gaudium e dell’enciclica Lumen Fidei, scritta come si sa da Francesco assieme a Benedetto XVI. Un modo per interrogarsi su quel che oggi lo Spirito dice alla Chiesa. Quattro espressioni dell’Esortazione paiono indicare la rotta da seguire: «Una nuova tappa», «un nuovo sguardo», «contemplativi della Parola di Dio e contemplativi insieme del popolo di Dio», «iniziare processi più che occupare spazi». Coda ha appassionatamente ricordato che ogni esperienza evangelizzatrice è sempre nuova, se trova la sua sorgente in Cristo stesso, che ci porta ad avere una «logica trinitaria nel nostro modo di lavorare». La Chiesa, cioè, ha come modello proprio la Trinità. L’attuale momento ecclesiale, ha sostenuto il teologo, ci chiede una profonda conversione per saper cogliere e «accettare la libertà dello Spirito».

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