La Chiesa e il gender

L’affettività liquida e i nuovi cammini di fede. Colloquio con don Paolo Gentili, Direttore dell’Ufficio per la pastorale della famiglia della Cei  
Mani colorate
Parlare di famiglia, di identità sessuale, di genere, di “differenza” sessuale, non è semplice. Gli animi si scaldano facilmente, c’è molta emotività, segno che si tocca uno degli aspetti più delicati della nostra vita, che tanti vivono con sofferenza (più o meno esplicita).

Lo scontro è soprattutto tra chi sostiene che siamo determinati dal sesso biologico con cui veniamo al mondo e chi invece ritiene che l’identità sessuale sia costruita dalla cultura. Ne parliamo con don Paolo Gentili, giovane direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Conferenza episcopale italiana, in prima linea nel dibattito.

 

Da dove arriva il gender?

«Nasce da correnti radicali femministe americane che giustamente contestavano il fatto che alcuni aspetti tipicamente culturali (come la subordinazione femminile nelle società patriarcali) fossero presentati come “naturali”. Poi però da un eccesso si è passati all’altro: dalla pretesa – ideologica – che tutto sia naturale alla rivendicazione – altrettanto ideologica – che tutto è culturale e che non esiste alcun vincolo, alcun limite, alcun elemento di realtà con cui dover fare i conti. Questo si è tradotto nella pretesa di “cancellare” la differenza sessuale. Per capire veramente le radici del gender bisogna comprendere l’esasperazione dovuta a questa mancanza di dignità del femminile, che in alcuni luoghi risulta ancora un problema».

 

Come si pone la Chiesa cattolica nei confronti di chi segue il gender?

«La vera sfida oggi è proprio quella di riportare la riflessione sul genere dentro un cammino di sensatezza, anziché demonizzare la questione in sé, precludendo la possibilità di un autentico dialogo sull’argomento. Può darsi che talvolta ci sia ancora una percezione di questo tipo, ma non mi sembra che sia la Chiesa di papa Francesco. Negli ultimi due anni è cambiato completamente il rapporto tra Chiesa cattolica e mondo, in un processo che è iniziato con il Concilio Vaticano II, e al quale ognuno dei pontefici ha dato un contributo. Oggi siamo ad un rapporto di “simpatia”: papa Francesco incarna in pieno la Gaudium et spes con uno sguardo di simpatia per tutto ciò che è autenticamente umano. Questo non tradisce la verità del Vangelo, anzi, la radicalizza, ma rendendola, come una buona mamma di famiglia, digeribile e comunicabile, esaltandone il profumo e la pienezza di vita».

 

La Chiesa ha qualcosa da imparare dalla società laica o la Rivelazione è sufficiente?

«Sicuramente la Rivelazione è un dono speciale che Dio ha fatto all’uomo. Questo non toglie però che lo Spirito Santo possa comunicarsi anche a chi sta nelle periferie della Chiesa o se ne sente fuori, soprattutto su alcuni temi. I semi di verità vanno però condivisi, perché verità e comunione camminano insieme: la verità non può essere separazione, il segno dello Spirito è l’unità. Una verità da soli è monca, contraddice sé stessa. La verità è comunionale, per cui ci sono aspetti di fondo dell’umano che, con gli uomini di buona volontà, si possono condividere». 

 

La Chiesa sottolinea l’importanza della differenza sessuale, maschile e femminile, mentre Facebook propone 70 identità sessuali diverse…

«È la società liquida che si trasforma in affettività liquida. Questo però offusca le radici sponsali della persona umana, radici connaturali all’uomo nel suo essere maschio o femmina. Non è solo questione di Rivelazione, ma anche di natura umana. La sessualità non è codificata solo negli organi genitali: anche un’unghia è sessuata, se analizziamo il suo dna sappiamo se quello è un uomo o una donna. Ogni donna e ogni uomo si relazionano con chi li circonda sempre tramite la loro differenza sessuale. Cancellare questa differenza vuol dire perdere termini come “sposo, sposa, figlio, figlia, padre, madre”, termini autenticamente umani, che fanno parte della cultura di tanti popoli, non solo quelli con radici cristiane. C’è il rischio di cancellare l’umanità stessa e il suo destino».

 

Tanti sacerdoti sono in prima linea accanto a chi soffre…

«In chi vive una confusione sulla propria identità sessuale c’è spesso una grande sofferenza, talvolta in una profonda solitudine. Questo è l’ospedale da campo in cui papa Francesco ci chiama a operare, a curare i feriti con misericordia: feriti disillusi sulla vita e sulla fatica di relazionarsi, spesso senza colpa. Bisogna entrare in questo campo “togliendosi i calzari” (cfr. Es 3,5), con la delicatezza di Mosé davanti al roveto ardente, dinanzi al territorio sacro che è la persona umana. Per questo non occorrono lance o grimaldelli, ma una carezza della Chiesa di fronte a questo mondo, custodendo però dalla possibile confusione. Penso ai messaggi che riceve un adolescente nel web, nella piazza, a scuola, nei luoghi dello sport, nel rapportarsi in parrocchia o in casa. Non possiamo permettere che rimanga solo davanti a questa confusione: per far crescere un uomo occorre “un intero villaggio”. La questione vera è scoprire le radici sponsali della persona umana, dove l’uomo è chiamato a seguire il proprio destino, costruendo il villaggio dell’umano, dove curare come un balsamo le ferite che stanno dentro a questa poca chiarezza. Ecco perché la soluzione non è l’orgoglio di massa omosessuale, in cui direi che molti omosessuali e transessuali non si ritrovano». 

 

Lei è coinvolto in questo campo…

«Sì, ci sono cammini di fede che stanno nascendo. Siamo ancora poco efficaci come rete sul territorio, ma ci sono esperienze interessanti. Credo che ci vorrà un nuovo investimento pastorale nel futuro, non con le bandiere, le lance e gli scudi, bensì con un dialogo carico di Vangelo, capace di annunciare la verità dell’umano. Questo vuol anche dire, però, restituire dignità alle tante famiglie che, mentre con forza e fatica crescono i propri figli, qualche volta si sentono minoritarie in un mondo dove le poche voci assordanti rischiano di calpestare la foresta che cresce».

 

Nel frattempo anche in Italia c’è chi lavora per togliere dalla Costituzione i riferimenti alla famiglia naturale, padre e madre…

«Chi vive la condizione omosessuale o transessuale è magari capace di un affetto che a volte può essere anche più forte di quello di un papà o di una mamma naturali, di uno sposo o di una sposa. Ma soffre perché sa che il suo non può essere un affetto sponsale perché non fertile, cioè non è possibile un’apertura alla vita, una procreazione naturale». 

 

E questo cosa comporta?

«Nel caso degli omosessuali, per generare la vita sono necessarie vie esterne al rapporto di coppia, artificiali, in modo surrogato. Per cui quei due uomini non saranno mai insieme i genitori di quel bambino. Questo è un dato di fatto che spesso provoca una grande sofferenza in chi lo vive, perché consapevole di una non fertilità, del fatto che non sarà mai padre e madre, ma solo coppia omosessuale. Sessualità etimologicamente vuol dire proprio “distinguersi nella differenza”. Ci vuole quindi da una parte la consapevolezza di entrare in un campo di grande sofferenza umana, che richiede delicatezza, dall’altra però occorre custodire la famiglia fondata sul matrimonio. Le radici cristiane nei padri costituenti erano molto chiare, erano portatrici di “un’antropologia adeguata” direbbe san Giovanni Paolo II». 

 

E papa Francesco?

«Anche lui ha ribadito il diritto di ogni bambino ad avere un papà e una mamma. È stato molto chiaro su questo e chi vuole strumentalizzare le sue aperture non fa un buon servizio né al pontefice né a chi è nella sofferenza. Ci sono molti omosessuali che sono contrari alle adozioni: pur vivendo degli affetti, sono consapevoli che non sono affetti sponsali. L’uomo non può trasformare la propria origine, perché non ha deciso lui cosa è e cosa è destinato ad essere: la vita gli viene offerta con un corpo sessuato, il quale chiama al dono fecondo di sé e quindi ad una relazione nella differenza e nella reciprocità. Questo vale anche per i sacerdoti: se la Chiesa latina accoglie ancora con gioia il celibato, lo fa non per arroccamento o difesa dal femminile, ma per meglio entrare in relazione. Il sacerdote, infatti, sposa la comunità. Per questo il celibato è segno di fecondità. Tutti siamo sponsali, anche il sacerdote, che non potrebbe vivere senza una comunità a cui donarsi. Ecco perché il pastore deve avere “l’odore delle pecore”, altrimenti perde la sua identità più profonda».

 

Si sente in prima linea? 

«Oggi sulla famiglia c’è una grande sfida, ma credo sia la sfida sul futuro dell’umano, molto più grande delle varie connotazioni che la famiglia sta assumendo. Qui c’è in gioco il destino umano. Il Signore mi ha messo in un compito di responsabilità, ma anche di grande bellezza: mi sembra di essere come su un “balcone” dal quale posso vedere tante belle famiglie che, accudendo magari il proprio quarto figlio, amandosi e perdonandosi, dicendo quotidianamente “scusa, permesso, grazie”, rinnovano la società».

 

Quale futuro le piacerebbe?

«Vedo il futuro come una coppia di genitori i quali vengono a sapere che il proprio figlio è omosessuale o transessuale, un figlio che magari continua a frequentare la parrocchia perché si sente accolto. A questo figlio il papà dice: “Sappiamo che sei su una strada difficile, ma noi ti saremo sempre accanto e cercheremo di insegnarti come vivere il Vangelo nella tua condizione”».

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