Aggiunge un piccolo, per nulla trascurabile, tassello alla filmografia su Cosa nostra, e alla sua storia criminale tragicamente legata a quella italiana, l’interessante film di Fiorella Infascelli, La camera di consiglio, presentato alla Festa del cinema di Roma – sezione Freestyle – e in sala dal prossimo 20 novembre, con Notorius Pictures.
L’opera mette a fuoco il periodo, lungo più di un mese, in cui la corte d’assise del Maxiprocesso, composta da 8 persone in tutto – 4 uomini e 4 donne – si ritirò dentro il carcere dell’Ucciardone, in condizioni di massima sicurezza, senza avere alcun contatto col mondo esterno, senza vedere nemmeno il cuoco che preparava da mangiare, per condannare o assolvere gli imputati di quel grande e fondamentale processo.
Si tratta della camera di consiglio più lunga della storia giudiziaria italiana: 36 giorni di clausura; di più, di blindatura, in un appartamento-bunker attaccato al penitenziario per decidere la sorte di 470 imputati, nell’ambito di quella che rimane una pagina fondamentale per la Repubblica italiana.
Per la prima volta, lo Stato riuscì a infliggere una condanna collettiva a Cosa nostra, riconoscendone l’esistenza come struttura unitaria. Fu un momento di svolta giudiziaria e civile decisivo per la storia del Paese.
Va da sé che raccontando questo particolare di una storia più grande, dolorosa e complessa, il film prenda la forma di un kammerspiele teatrale e claustrofobico, necessariamente poggiato sulla parola e sul talento degli interpreti, che in due casi su 8 hanno volti noti e aggiungono spessore a questa per niente banale idea narrativa. Sono Sergio Rubini, nei panni del presidente della corte, Alfonso Giordano, e Massimo Popolizio, in quelli del giudice a latere, che nella realtà fu Pietro Grasso.

Una scena del film “La camera di consiglio”. Foto: Ufficio stampa Gargiulo&Polici Communication
Dei protagonisti si respira la coscienza civile e la paura, la consapevolezza di essere davanti a un crocevia collettivo fondamentale, insieme al timore di subire conseguenze per il ruolo svolto, persino dentro quello spazio impenetrabile, tant’è che in una sequenza del film in cui va via la corrente, e suona l’allarme nel buio, i protagonisti vivono il terrore di essere alla vigilia di un attentato.
Se concedendosi una manciata di “spiegoni”, più o meno inevitabili, il film attraversa i suoi momenti didascalici, dall’altra testimonia la sua vocazione didattica, il suo porgersi come strumento della memoria civile, come occasione sia per i giovani che per gli adulti, perché la formazione e la memoria procedono sempre di pari passo.
La camera di consiglio, scritto dalla stessa Fiorella Infascelli e Mimmo Rafele, con la collaborazione del giornalista Francesco La Licata – esperto di mafia – e con la consulenza di Pietro Grasso, si lega a un altro film – altrettanto interessante della regista, dedicato ai giorni in cui Falcone e Borsellino si ritrovarono insieme sull’isola dell’Asinara, per motivi di sicurezza, dopo che erano arrivate minacce di un attentato ai loro danni.
Quel film si intitola Era d’estate, e torna ai fatti realmente accaduti nel 1985, rappresentando una sorta di prequel di La camera di consiglio, che invece si concentra sulla fine del 1987. In entrambi i film entra il tema di una paradossale e assurda reclusione: non quella dei criminali, ma quella di chi lotta per la giustizia, la libertà e il benessere dell’intera società. Rischiando in prima persona.
I protagonisti, come lo erano Falcone e Borsellino nel primo film, insieme alle loro famiglie, sono qui persone comuni, esempi di onestà, civiltà e passione per la giustizia, visto che il tema ombra del film, inserito in quello storico, è proprio la giustizia di cui discutono calorosamente i personaggi, sospesi tra la rabbia civile per la consapevolezza del male incarnato dai mafiosi, e il dovere morale di attenersi a prove e riscontri legali, prima che a fattori emotivi.
Ma è anche un film sulla libertà, La camera di consiglio, simboleggiata dal cortiletto interno all’appartamento bunker in cui i personaggi camminano, respirano, addirittura corrono e parlano. Quella libertà che molti hanno difeso, pagando anche con la morte, come elencano, proprio nei monologhi/dialoghi riassuntivi, i protagonisti di La Camera di consiglio, che per tutti i motivi citati, col suo impasto di tensione e isolamento, con la sua asciuttezza al servizio della Storia, rafforzata dall’inserimento di materiale di repertorio, tiene botta alla sfida della sua originalità espressiva e illumina un frammento prezioso di quella che fu una delle più forti risposte della democrazia italiana a una delle piaghe più profonde e dannose del nostro Paese.

Cartellone del film “La camera di consiglio”. Foto: Ufficio stampa Gargiulo&Polici Communication