La caduta di Raqqa e l’impegno delle donne curde

La vicenda ricca di rischi di Rojda Felat e delle altre combattenti del Rojava (il Kurdistan siriano), che hanno l’intelligenza politica di non pretendere un’indipendenza impossibile

 

Raqqa, città siriana di etnia araba, aveva circa 220 mila abitanti nel 2011, prima della guerra: oggi è un deserto di macerie. Distrutta soprattutto dai bombardamenti della coalizione a guida Usa e poi dai combattimenti quasi casa per casa, strada per strada: oltre 3 mila morti negli ultimi mesi. Gli abitanti, appena hanno potuto liberarsi dal giogo dei jihadisti, sono naturalmente fuggiti. La notizia della sua conquista da parte delle Sdf era attesa da tempo. Nei giorni che hanno preceduto l’occupazione di Raqqa, 275 jihadisti e foreign fighter, con 3 mila civili (probabilmente loro familiari e/o sostenitori) sono stati evacuati dalla città per un accordo stipulato tra Sdf e Daesh.

La foto che ha fatto il giro del mondo, non solo di quello occidentale, mostra la comandante curda Rojda Felat, finalmente sorridente, che sventola una bandiera gialla alla giratoria di Al-Naim square, a Raqqa, l’ex capitale strategica dello Stato Islamico. Sulla bandiera c’è scritto in rosso, in curdo: «Hêzên Sûriya Demokratîk», Forze Siriane Democratiche (Sdf). Nel rispetto degli alleati che compongono le medesime Sdf, la stessa dicitura è ripetuta in arabo (nero) e in siriaco (blu). Infatti, sebbene la maggioranza dei militari Sdf sia di origine curdo-siriana, ne fanno parte anche siriani di etnia araba, assira e siriaca, oltre a piccoli gruppi etnici di turkmeni, armeni, circassi e ceceni.

felat

Rojda Felat, che si dichiara musulmana (sunnita) e credente, ha guidato l’assalto finale alla ex capitale del Califfato. Oltre ad essere una donna speciale, è un comandante militare di grande esperienza, capo delle brigate Ypj, le unità militari femminili del Rojava, e membro dello stato maggiore Sdf. Le donne, nell’esercito curdo-siriano sono almeno 10 mila, tra brigate femminili e soldatesse inserite accanto ai loro colleghi nelle normali formazioni.

Figlia di commercianti, la comandante Felat è nata a Qamichli (nel Kurdistan siriano) meno di 40 anni fa (forse 37). Attiva nel Partito dell’unione democratica fin dal 2004, ha studiato lettere nella sua città natale. Nel 2012 è entrata nell’esercito curdo-siriano, divenendo ben presto ufficiale. Lei stessa racconta che alcuni grandi condottieri del passato, come Bismarck, Napoleone e Saladino (che era di origine curda) l’hanno molto interessata. Ha partecipato a tutte le principali battaglie dei curdi siriani contro il Daesh, compreso l’assedio di Kobane e l’offensiva di Mambij, che ha segnato l’inizio della cacciata dei jihadisti dal Kurdistan siriano e poi dalla stessa Siria. Nel 2016 ha subito un grave lutto, quando un missile dello Stato islamico è caduto sui partecipanti ad un matrimonio, ad Al-Hasakah, uccidendo 22 suoi familiari e parenti. Ha letto con passione gli scritti della russo-polacca Rosa Luxenburg (1871-1919), della curdo-irachena Leyla Qasim (1952-1974), entrambe giustiziate a causa del loro impegno per la libertà, e della curdo-turca Sakine Cansiz, uccisa con due compagne a Parigi nel 2013 in un attentato messo in atto da un agente di origine turca.

Rojda Felat ha conosciuto personalmente Arin Markin e Asia Ramazan Antar, le due soldatesse che non si sono lasciate catturare vive, preferendo morire piuttosto che subire l’oltraggio inferto dai jihadisti del Daesh alle donne yazide in Iraq, come Nadia Murad e Lamiya Bashar, fuggite dall’inferno jihadista, alle quali è stato assegnato lo scorso anno il Premio Sahkarov del Parlamento Europeo per la libertà di pensiero. Anche gli yazidi sono un popolo di origine curda, massacrato dalle milizie dello Stato islamico fin dal 2014. Le donne yazide sono state costrette dai miliziani jihadisti a diventare le loro schiave sessuali, vendute e comprate legalmente con sentenze dei loro tribunali, e che il giornalista del The New York Times Rukmini Callimachi ha definito «teologia dello stupro».

L’impegno e il generoso sacrificio dei curdi siriani, donne e uomini, e di tutte le Sdf per combattere il Daesh, anche al fuori della loro terra, com’è il caso di Raqqa, si spiega solo se si considera il loro desiderio di vedere riconosciuta la piena autonomia del Rojava a guerra finita. Ma sono anche ben determinati a restare nell’ambito di una federazione siriana legata a Damasco. Naturalmente sanno anche molto bene che non avrebbero potuto conquistare Raqqa senza l’appoggio aereo della coalizione a guida Usa. E che l’alleanza con gli statunitensi è decisiva per tenere a bada le mire del presidente turco, che continua a considerare tutti i curdi (non solo quelli turchi) nient’altro che dei pericolosi terroristi. Erdogan, a sua volta deve stare molto attento a non inimicarsi i russi, con i quali è alleato, ecc. Su queste ed altre acrobazie politiche si fonda la fragile speranza dei curdi siriani di vedere finalmente riconosciuta in qualche modo la loro identità e il diritto di governare la loro patria.

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