La bellezza della fragilità

“Abbi cura di me” è il libro che racchiude la vita e l’esperienza artistica di Simone Cristicchi, raccontate dalla penna del giornalista Massimo Orlandi. Lo abbiamo intervistato in occasione della presentazione in prima assoluta del libro. Articolo pubblicato sul n. 12/2019 di Città Nuova

“Abbi cura di me” è un tema ricorrente nelle sue opere. Che vuol dire per lei “prendersi cura”?
Mi piace molto la parola “attenzione”. Credo che i mali di quest’epoca siano l’indifferenza e la distrazione, il fatto di essere sempre con la testa da un’altra parte nel momento in cui si dovrebbe vivere il presente. C’è una frase in un libro sacro del buddhismo: «Gli attenti non muoiono mai, i disattenti sono come già morti». “Attenzione” ha questo significato: volgere l’animo verso qualcosa. Nel momento in cui sono attento, esco da me stesso e mi accorgo che esiste il mondo, esiste l’altro di cui mi devo prendere cura. Credo che nella nostra vita dobbiamo scegliere anche solo una persona di cui prenderci cura. Questa canzone è stata ispirata dal fatto che credo che ci sia un senso di separazione da qualcosa che accomuna tutti gli esseri umani e cerchiamo tutta la vita una completezza che spesso riusciamo a trovare nell’amore, l’amore coniugale, altri la trovano nel rapporto con Dio, penso alle suore di clausura. Dal momento in cui usciamo dalla pancia materna, ci sentiamo persi nel mondo. In questo senso Abbi cura di me diventa una sorta di preghiera universale che appartiene a tutti.

Chi si è preso cura di lei?
Ho avuto la fortuna di avere tanti padri ¬ il mio, l’ho avuto solo per 10 anni – che si sono presi cura di me. Penso ai grandi cantautori italiani: Rino Gaetano, Battiato, De André, De Gregori, che in qualche modo mi hanno indicato una strada. Poi c’è la mia mamma, Luciana, che ha dovuto fare anche da padre. È stata la mia prima fan, ha sempre creduto che prima o poi questo figlio con la testa fra le nuvole avrebbe trovato la sua strada.

Lei di chi si prende cura?
Innanzitutto della mia famiglia e dei miei bambini e mi prendo molta cura del pubblico che mi segue, perché non è scontato prendere la macchina, andare in un teatro, pagare un biglietto, ascoltarmi per due ore, quindi cerco di offrire dei prodotti di alta qualità.

Cosa ha significato duettare con Sergio Endrigo?
Quando ero bambino, mamma era solita mettere i dischi degli anni ’60: Gino Paoli, Tenco, Endrigo. Dopo tanti anni il mio produttore, Francesco Migliacci, mi ha proposto di cantare un brano di Endrigo e ho accettato subito. Poi abbiamo alzato la posta: proviamo a coinvolgerlo in un duetto. Quando lui è entrato nello studio di registrazione, ha cominciato a raccontare la sua vita straordinaria, ricca di aneddoti molto divertenti. Io non ero entrato subito in empatia con questo suo essere narratore scherzoso e scoppiai a piangere per l’emozione. Negli anni ho cercato di omaggiare Endrigo, ho fatto dei concerti per mantenere viva la sua memoria con l’Orchestra sinfonica ed è stato un modo per ringraziarlo di questo dono che mi ha fatto.

Raccontando il disagio mentale, la vita dei minatori, l’esodo dall’Istria, ha dato voce a chi non ha avuto voce. Ritiene che debba essere questo il compito dell’artista?
Sento molto la responsabilità del microfono. Ho sempre avuto l’attitudine a utilizzare l’arte per raccontare delle storie. Ho utilizzato il mezzo della canzone, poi i libri, per mettere sotto i riflettori qualcosa che mi stava a cuore. Ho cominciato con i matti: ho dedicato loro un libro, uno spettacolo teatrale, la canzone Ti regalerò una rosa. Anche io ho rischiato di essere “sul filo della follia” dalla morte di mio padre perché mi sentivo diverso dagli altri, mi sono autoemarginato, chiudendomi nella mia stanza, cercando di superare quel momento difficile e l’ho fatto attraverso il disegno. Credo che tutto nasca dalla voglia di rendere giustizia a chi non ha potuto parlare. Quando ho scritto Magazzino 18, lo spettacolo che raccontava l’esodo dall’Istria, molte persone mi hanno ringraziato perché nessuno aveva mai messo in scena il loro dramma. L’arte, così, diventa strumento che arriva a toccare delle corde profonde.

Il suo percorso artistico è un invito a “vivere dentro”, a realizzare la propria unicità. È questa la sfida dell’uomo di oggi?
Ho letto una statistica sulla città di Roma: una persona su 10 partecipa alla Messa di domenica, nonostante ci sia un papa molto carismatico, vicino alla gente. Nello stesso tempo sta crescendo il momento di raccoglimento in solitudine. Nell’epoca in cui viviamo, di grande confusione, di cambiamento antropologico, è importante recuperare un piccolo spazio nella giornata dove fare quello che da piccoli ci facevano fare, l’esame di coscienza, ascoltare quella voce che molto spesso viene soffocata.

Nel libro si dice che lei nel 2007 «ha cantato la bellezza della fragilità». Che bellezza si nasconde nella fragilità?
C’è una frase nel libro: «Non siamo venuti al mondo per essere belli ma per essere veri». Nel mondo in cui viviamo, dove ragazzi seguono gli influencer e si calcola il successo di una persona dai follower, la persona fragile viene schiacciata. I momenti più belli della mia vita sono stati quelli in cui ho scoperto di essere fragile, di avere trovato una persona a cui appoggiarmi. Nel mondo dello spettacolo è difficile far passare questo tema perché si prova sempre ad essere sul tempo, sul pezzo. Credo che la fragilità sia la nostra essenza. La canzone Ti regalerò una rosa, quella sera in eurovisione, ha dato voce alla nostra fragilità perché è andata oltre la mia vita personale e si è rivolta a tutti quelli che l’hanno ascoltata.

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