La “clinica in valigia”

Taglia il traguardo dei 25 anni di attività una delle iniziative di volontariato degli studenti dell’Università di Berkeley mirata a portare assistenza medica di base ai senzatetto. Un modello che potrebbe diventare parte integrante delle politiche di sostegno alle fasce disagiate della società
Berkeley

La chiamano Suitcase clinic, “La clinica in valigia”: è il servizio che alcuni studenti dell’Università di Berkeley, la più rinomata tra le università pubbliche americane, portano avanti volontariamente da oltre 25 anni. Tutto è cominciato quando alcuni specializzandi in medicina hanno iniziato a girare per i parchi della città, coinvolgendo anche alcuni studenti più giovani: l’obiettivo era quello di portare alcuni servizi di base ai senzatetto – medicine, semplici consulti medici, il necessario per l’igiene personale, il taglio di barba e capelli, o anche una semplice chiacchierata. Tutto il necessario veniva portato in una valigia, e da lì l’iniziativa ha preso il nome.

 

Da allora molte cose sono cambiate:  grazie all’aiuto di parrocchie e associazioni sono stati allestiti degli spazi stabili al coperto, con tanto di piccoli ambulatori, sale da pranzo, docce e spogliatoi; e il gruppo si è dotato anche di un furgone, per rendere più facile andare ad incontrare ed eventualmente trasportare in questi luoghi chi ne avesse bisogno. Insieme agli specializzandi in medicina ci sono altri volontari che hanno seguito un corso di formazione organizzato dall’ateneo, così da potersi prendere cura al meglio di chi arriva; ma questa, ancor prima che un servizio di sostegno medico o di parrucchiere, è una scuola di rapporti.

 

Christopher Peabody, coordinatore della “Clinica in valigia”, spiega come «nell’interazione umana le barriere cadono, e gli studenti – che di solito non hanno esperienza di relazione con i senzatetto – raggiungono una maggior consapevolezza di che cosa significhi vivere per strada». Cosa che peraltro non è facile nemmeno sotto il profilo legale: non solo è fonte di estremo disagio il fatto di «trovarsi a fare in pubblico ciò che sarebbe privato, come cambiarsi, andare in bagno, litigare con il partner o dormire», ma «dormire per strada è vietato per legge. Per cui molti di loro si ritrovano multati, o citati in giudizio, fino a rischiare il carcere». Che significherà pure non dormire più per strada, ma non è esattamente una soluzione alla crisi degli alloggi. Un sistema, conclude Pabody, in cui «questa gente è costretta a sparire».

 

Il volontariato alla clinica è poi un grande aiuto nella formazione dei futuri medici: «Mai prima avevo riflettuto sul fatto che c’è chi, ad esempio, potrebbe non avere un frigorifero per tenere le medicine che hanno bisogno di essere conservate al freddo – osserva Peabody –; o non avere la possibilità di lavarsi e medicare una ferita tre volte al giorno. Finché non vedi le cose da un altro punto di vista, non ti rendi conto di quanto grandi queste barriere possano essere. Ma come medico, devo conoscere a quali difficoltà possono andare incontro i miei pazienti».

 

Dopo 25 anni, non solo la “Clinica in valigia” è nota come una delle iniziative di volontariato meglio riuscite di tutto il sistema universitario americano, ma è anche vista come un sistema efficace per “tappare le falle” di un sistema sanitario che lascia fuori chi non ha un’assicurazione, costringendo queste persone a rivolgersi unicamente al pronto soccorso e solo in casi estremi: «Il che ha un costo molto più alto che dar loro, semplicemente, un posto al coperto: è un sistema che, illudendosi di risparmiare denaro pubblico, finisce per costare molto di più» osserva Peabody. L’auspicio è che, in futuro, questo genere di assistenza diffusa possa diventare parte integrante delle politiche volte a sostenere chi rimane senza casa.

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