l giardino del Collezionista

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Èpossibile che l’inesprimibile si raccolga in un piccolo olio che raffigura un Fiore bianco in un giardino? Paul Klee, che l’ha dipinto nel 1920, sezionando con frange di colore puro petali e stelo per raccoglierli uno ad uno in una sola cosa, forse c’è riuscito. L’arte sa dire con tocchi essenziali un mondo. Lo si sperimenta viaggiando tra i fiori di serra dei Guggenheim, offerti – come è giusto – all’esplorazione di tutti. Un viaggio appassionante, in un colloquio diretto con i grandi artisti, a scoprire la loro inesauribile ricerca di assoluto. Nella quale – e forse non ce ne accorgiamo – finiamo di ritrovarci tutti noi. Paul Cézanne, sul 1885, osserva la natura intorno a Jas de Bouffan, la raccoglie in forme immobili l’una accanto all’altra a formare una nuova unità, cosa che non accade alle stilettate, piene di angoscia, nel Van Gogh del Paesaggio con neve. Sono varie le voci, alla fine del secolo diciannovesimo e ai primi del Novecento, che esplorano nuovi terreni: comune però è la tensione ad entrare nelle cose, a sezionarle e a superarle. Una Venezia dipinta da Monet sul 1908 con tinte in dissolvenza è più visione che descrizione, e certi ritratti di Picasso o Matisse di quegli anni, con i colori bruniti e i volti cupi, parlano di una umanità oppressa dalla tristezza. Arte amara, ma che affascina, perché dice una inquietudine vera. Talora il dolore si carica di luce. Il marmo di Brancusi – la Musa, 1912 – brilla sopra il piedistallo di quercia; il contrasto fra il caldo del legno e lo splendore della pietra genera una luminosità intensa, un piccolo universo raccolto nei tratti appena accennati del volto. Una porta, si direbbe, sull’inesprimibile bellezza, come la concepisce il Novecento. Un tempo ove si avverte l’impossibilità di dire l’infinito, pur volendolo esprimere: ed è questa tensione a dar vita a momenti di autentica creatività. Nella Composizione 8 di Mondrian o nella Velocità astratta + rumore di Balla si alternano strutture simboliche aggressive – in Balla – alla simmetria astratta di Mondrian. La tela di quest’ultimo anzi potrebbe essere il manifesto di un nuovo tipo di bellezza, l’Astratto, in cui linee e forme geometriche risultano punti luminosi a dire non più il corpo – dopo millenni, forse non ce n’è più bisogno – ma a narrare lo spirito. Ecco allora la fantasia sognatrice di uno Chagall, ma ancor più la grande metafisica di Kandinskij. Di fronte ai suoi Paesaggi o ai suoi Cerchi degli anni Venti vive l’intuizione di altri mondi da scoprire, di nuove frontiere spirituali. C’è qualcosa di sacro in questi lavori: un mistero intuito, inespresso, ma ricco, che comunque si tocca con colori e forme spaziali. Lo dice un marmo di Jean Arp, Crescita (1938): le forme snelle di un corpo s’incurvano slanciandosi in alto come una frase musicale: levigatezza, indefinitezza: una vitalità meravigliosa. Qualcosa di simile accade nella Donna dai capelli gialli dove Picasso affida al gioco seducente delle linee l’evocazione di un sonno-sogno di pacificata interiorità. Ma, accanto a questi aneliti, il secolo conosce le grida. Gronda sangue dalle opere di Pollock, che pare non veder altro intorno a sé se non il martirio dell’uomo, che pure spasima verso un altrove. Nel Numero 18 (1950), il pittore inventa una matassa di segni e di intrecci – la dispersione dell’uomo? -, su uno sfondo grigio neutro: è la soglia da varcare per riconoscersi di nuovo? Forse qualcuno tenta, a fatica, il passaggio. Josef Albers in Omaggio al quadrato. Apparizione (1959) fa di una forma geometrica un’irradizione di splendore: è un entrare di forme (di anime?) l’una nell’altra, armonicamente, graduandosi nella luce. Fa pensare ad un’apparizione dello Spirito, incorporeo e quindi non descrivibile, ma capace di emanare calore, di raccogliere le vite. Certo, il secolo che sa giungere ad una folgorazione come questa, la paga – in un certo senso – con la crudeltà dell’omologazione che annichilisce l’essere umano. Ecco perché l’Autoritratto di Andy Warhol (1986), diventa icona del lato oscuro del secolo, con il grido di quegli occhi febbrili nell’irrealtà di tinte forti, come il verde e il nero. Ma il cammino dell’arte – con il suo alternarsi di tenebra e luce – non si ferma. L’hanno capito i Guggenheim, raccogliendo – per sé e per noi – le voci e le tappe di una storia che è nostra. Mario Dal Bello

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