Keith Haring a Milano

La mostra presenta 110 opere del geniale artista americano: molte di grandi dimensioni, alcune inedite o mai esposte in Italia, provenienti da collezioni pubbliche e private americane, europee, asiatiche. La rassegna, per la prima volta, rende il senso profondo e la complessità della sua ricerca, mettendo in luce il suo rapporto con la storia dell’arte.
Alcune opere di Keith Haring. Photo by: Christian Charisius/picture-alliance/dpa/AP Images

L’arte di Keith Haring è considerata all’unanimità “scrittura” e arte concettuale. Haring utilizza con lucida consapevolezza i linguaggi delle grandi narrazioni classiche, dal fregio ionico del Partenone di Fidia, all’Ara Pacis augustea, alla Colonna Traiana, per “comunicare” un nuovo ruolo dell’ uomo, “comunicare” con intensità febbrile la storia, serbatoio di immagini e di suggestioni. Semiologia al servizio di una battaglia politica ed etica. La pittura fondata sull’analisi linguistica vive l’intento dell’incompiuto e dell’ “eterno ritorno” di De Chirico, delle formulazioni irrisolte e delle ricerche interrotte attraverso una narrazione che si origina dall’inconscio, come l’ Ulisse di Joyce, per dare rilievo solo agli aspetti significanti, agiti, vissuti in piena consapevolezza.

La ripresa del  pittogramma “uomo” è il vocabolo più presente. L’uomo vitruviano di età augustea passa attraverso l’esegesi medioevale di Santa Ildegarda di Bingen, la luminosa spiritualità di Giottino, il Giudizio Universale di Giotto, gli inferni di Bosch, i sonetti di Michelangelo nella lucida descrizione del dramma, l’umanesimo di Leonardo. La scelta del curatore, Gianni Mercurio, di affiancare Haring a Giottino, Sant’Ildegarda di Bingen, Michelangelo, la Colonna Traiana, Picasso, Pollock, Dubuffet, dimostra, senza bisogno di spiegazioni, che il writer newyorkese è a sua volta un classico del XX secolo, genio nel creare un nuovo linguaggio segnico archetipico “senza un limite”, autobiografico e storico allo stesso tempo.

Unfinished Painting del 1989 celebra l’arte concettuale del “non finito” che rimanda all’“eterno ritorno” nietzcheano delle forme senza fine. Il linguaggio segnico fatto di pattern e icone s’interrompe in un angolo della tela bianca per indicare l’appartenenza a un “non luogo” che va “oltre” lo spazio angusto di un quadro, un vagone di un treno, una parete metropolitana, per conquistare uno spazio infinito, altrimenti troppo wasp (white, anglosassone, protestante). Haring utilizza un “narrare” universale e classico che si fa musica, danza, poesia, letteratura, alfabeto di segni astratti nei quali si possono leggere dei messaggi di giustizia sociale, difesa dei diritti delle minoranze, condanna dell’arroganza multimediale del potere. Haring, educato in un contesto cristiano tradizionale, rispetta la fede religiosa individuale ma condanna i falsi profeti, i falsi credenti, le false religioni che celebrano ipocrisie e duplicità irrisolte. «Una grande parte di male ‒ ha osservato Haring ‒ è stata causata nel nome del bene». Nell’Altarpiece e nell’ icona classica de Il Bambino, Haring celebra una visione salvifica della fede. Riprende i temi del Tuttomondo, dipinto sulla parete esterna del Convento di S. Antonio di Pisa e celebra la sua volontà di pace, di armonia, di vita, di infanzia spirituale. È lo sguardo incantato, generoso, onesto di chi vuole restare per sempre all’età di dodici anni.

Keith Haring, “About Art”, Palazzo Reale, Milano. Fino al 18/6. Info http://www.palazzorealemilano.it/wps/portal/luogo/palazzoreale/mostre/inCorso/KEITH_HARING

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