Kazakistan, l’ingloriosa fine d’una dittatura

Gravissimi incidenti nel Paese centrasiatico, soprattutto nella principale città Almaty. Decine di morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti. Causa immediata, la liberalizzazione del prezzo del petrolio; causa remota, la dittatura soft di Nazarbayev arrivata al capolinea
Kazakistan

Va bene, il presidente del Kazakistan, Kassym-Jomart Tokayev, ha dichiarato oggi che l’ordine è stato per lo più ristabilito nel Paese, dopo giorni di disordini senza precedenti: «Le forze dell’ordine stanno lavorando duramente. L’ordine costituzionale è stato per lo più ripristinato in tutte le regioni», ha scritto in un comunicato. Ma non è finita, le operazioni militari contro i rivoltosi continueranno. Secondo fonti governative, sono 26 i «criminali uccisi» e 18 i feriti, mentre sono state smantellate una settantina di barricate nel Paese. È stata «restituita ai passanti» la grande Piazza della Repubblica, ad Almaty, dove si erano concentrate le proteste dei dimostranti antigovernativi.

Sul numero dei morti le opinioni nel Paese sono assai diverse, così come sulla recrudescenza degli incidenti: si parla di un migliaio di feriti, e di circa tremila arresti, come ha confermato il ministero della Sanità kazako, contraddicendo quanto detto da altre fonti governative, a testimonianza del caos che regna anche nelle istituzioni del Paese. Sono pure entrate in campo le “forze di pace” dell’alleanza CSTO, trattato che riunisce Russia, Kazakistan, Armenia, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, pomposamente definita «una forza collettiva di pace dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva», inviata sul posto per «un periodo limitato» per «stabilizzare e normalizzare la situazione», come ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova.

La rivolta è scoppiata, classica goccia che fa traboccare il vaso, per la fiammata del prezzo del gas, risorsa indispensabile ai cittadini per scaldarsi nei rigidissimi inverni kazaki e per spostarsi in automobile. Così il governo ad interim del Kazakistan – il presidente ha mandato a casa il precedente premier Mamin − ha annunciato di aver imposto un calmiere per sei mesi sul prezzo del gas per «stabilizzare la situazione socio-economica» in un Paese in cui l’economia è ancora legata ai vecchi standard monopolistici comunisti dell’Unione Sovietica, di cui faceva parte. E ciò, paradossalmente, in un Paese ricco di risorse petrolifere e di gas.

La protesta era nata in modo non violento nelle regioni petrolifere dell’ovest. Poi, arrivando nelle grandi città, in particolare Almaty, la protesta si è radicalizzata ed è diventata violenta. A nulla è valso il repentino passo indietro del presidente. Ed ora, nella folla dei protestanti, non ci sono solo operai e contadini, ma s’è infiltrata quella massa di persone dipendenti economicamente dal regime di Nursultan Nazarbayev, di fatto presidente e dittatore soft della Repubblica indipendente kazaka, che solo di recente ha lasciato la presidenza, gente rimasta senza risorse per il collasso progressivo del regime.

Ovviamente, per le evidenti analogie con il caso ucraino, i Paesi occidentali guardano con preoccupazione al grande Paese centrasiatico, che da tempo ci si aspettava che implodesse, dopo quasi 30 anni di dittatura di fatto, mantenuta con pugno di ferro ma senza troppe violenze militari e poliziesche. L’Unione europea guarda dunque «con grande preoccupazione agli sviluppi della crisi in Kazakhstan. I diritti e la sicurezza dei civili devono essere garantiti», come scrive l’alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, sottolineando come «gli aiuti militari esterni riportano alla memoria situazioni che vanno evitate». L’Europa, sottolinea Borrell, «è pronta a fornire il suo supporto per affrontare la crisi». L’Italia sottoscrive e fa sapere, attraverso un comunicato della Farnesina, che «segue con grande preoccupazione i gravi eventi in Kazakistan, Paese al quale è legata da rapporti di amicizia e da un solido partenariato economico, rivolgendo un forte appello affinché si metta immediatamente fine alle violenze». Inoltre «l’Italia chiede che non si ricorra all’uso della forza e si avvii un percorso nazionale di allentamento delle tensioni in un quadro di piena sovranità in linea con gli standard di rispetto dei diritti e di pluralismo fissati dalle Organizzazioni Internazionali di cui il Kazakhstan è membro». Come a dire: guai a superare i paletti, nessuna invasione russa del Kazakistan sarebbe tollerata. Mosca considera Paesi come l’Ucraina, la Bielorussia e l’Asia centrale come propri “giardinetti” e non tollera che vi siano ingerenze d’altrove. Il caso georgiano ne è stato un esempio alla fine degli anni Dieci.

I collegamenti telefonici e Internet con il Kazakistan sono quasi impossibili, gli aeroporti sono chiusi, è difficile avere fonti dirette dello stato delle rivolte. I prossimi giorni saranno decisivi per capire se il regime collasserà definitivamente o se riuscirà a riportare un po’ d’ordine in un Paese che faticosamente sta passando dalla fase comunista a quella liberista. Tale passaggio in realtà non è avvenuto nel 1989, alla caduta del Muro di Berlino, semplicemente perché l’apparato sovietico è stato “nazionalizzato” dall’allora segretario del Partito comunista kazako, Nursultan Nazarbayev, appunto, trasformatosi in presidente onnipotente senza transizione, senza soluzione di continuità, semplicemente diventando il paladino dell’anticomunismo. Ma i conti con la storia prima o poi vengono sempre fatti.

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