Jonathan Gilad

Sembra un ventiduenne qualsiasi, in jeans e maglietta. Ma le mani affusolate e l’occhio brillante al sentire parlar di musica, dicono che il pianista marsigliese ha tempra d’artista. Adora da sempre Mozart: Con lui ho sviluppato un’affinità che dura tuttora, perché la sua musica è assolutamente meravigliosa. Abbordabile da tutti e allo stesso tempo assai sofisticata. Quando lo suono, provo sentimenti molto diversi, perché in lui c’è una grande varietà di emozioni, difficile da condensare in una sola. Come con Schubert (altra predilezione, eseguito con vivo successo il 4 dicembre all’Accademia Filarmonica Romana, ndr), e certo differente da Chopin, meno passionale. E del Novecento, chi ama il giovane Jonathan? Sorride: Suono Prokof’ev. Tutto qui. Ex fanciullo prodigio, Gilad deve molto, oltre al proprio talento, al direttore e pianista Daniel Baremboim: Lo ammiravo già dal conservatorio, poi a tredici anni ho avuto l’occasione di suonare al suo posto. È stato lui inoltre che mi ha permesso addirittura di sostituire Maurizio Pollini, indisposto, all’ultimo momento in un concerto all’Orchestral Hall di Chicago. Baremboim mi è sempre vicino, con i suoi consigli sul modo di lavorare e di studiare. Jonatham vive a Parigi, lontano dai suoi che abitano nella natia Marsiglia, ma con i quali mantiene un rapporto eccellente. Si riposa uscendo con gli amici. Cinema, musica – Mi piace molto il jazz, ma ne sono totalmente profano – ammette. Però il suo grande ideale, ovvio, è la musica: Io non sono religioso, sono laico. La musica per me è la forma d’arte più ricca d’espressione, più forte. Nella nostra società così inquieta, credo che il contributo di noi pianisti per la pace potrebbe esser quello di cercare di eseguirla nel modo migliore possibile, unendo persone diverse,come ha fatto Baremboim formando un’orchestra di ebrei e arabi: l’ideale della musica credo sia sufficiente per fare qualcosa insieme”. Sempre in giro, Gilad, in partenza per Firenze, non ha nemmeno il tempo di ammirare Roma: È una città magnifica, ci vengo per la seconda volta. La prima fu anni fa come vincitore di un premio a Ginevra organizzato dalla Rai. Ricordo che ho suonato a Villa Borghese. Ma purtroppo non ho la possibilità di visitarla. Programmi futuri? Sbuffa e sorride: Naturalmente, continuare con la musica e chiudere i prossimi tre anni di studio. RISTIAN POLTÉRA Svizzero, 27 anni, inarca il suo Stradivari 1698 nella lunghissima, virtuosistica cadenza che apre, inusitatamente, il Concerto per violoncello e orchestra (1970) di Witold Lutoslawski nella Sala Santa Cecilia al romano Parco della musica. Il concerto è una lotta titanica fra individuo (violoncello solista) e società (l’orchestra), con accenni lirici fuggevoli e tremende dissonanze del Tutti orchestrale. Una contesa – come spiega in apertura il direttore Heinrich Schiff – spasmodica, dove il dialogo tra solista e massa è un tentativo sempre ripetuto (solista con arpa e con i singoli legni), poi violentato dagli scoppi degli ottoni, rinnovato con effusioni liriche degli archi per chiudere,dopo un sorta di battaglia, più che in un senso di morte, in una lieve finestra sulla speranza, nel gioco sonoro delle note finali tenui e sospese. Gran bella musica, frutto un tempo difficile. Se Schiff ottiene dall’orchestra una dose precisa di contrapposizioni timbriche, Poltéra cava dallo strumento una multiforme varietà sonora, di gemiti lancinanti, frasi calde, incursioni stridule, sempre in tensione, con rari attimi di tregua: ma il suono è quello giusto, l’espressività adatta, in un brano di difficile comprensione per il pubblico. Che, dopo aver a lungo applaudito il promettente violoncellista, si riposa con la Quinta beethoveniana, in una versione magniloquente e (forse) troppo enfatica data da Schiff. Ma l’orchestra ceciliana ha regalato, specie nel secondo movimento, il suo caratteristico cantabile degli archi che la rende, sotto questo aspetto, unica.

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