John Locke: amore reciproco e contratto.

Èpossibile a uomini di diversa professione religiosa vivere in pace sotto il medesimo governo, senza lotte ed animosità tendere al medesimo interesse civile, e per mano marciare verso il medesimo fine di pace e di reciproco soccorso, pur essendo diversa la loro via verso il cielo? Il desiderio di convivenza pacifica tra le religioni che questo brano del ventisettenne John Locke esprime, non ha soltanto un aspetto religioso, ma anche civile. Oliver Cromwell era morto l’anno precedente, nel 1658, quando il giovane aveva conseguito il Master of Arts: Locke aveva avuto simpatia per il Protettorato – suo padre aveva combattuto con i puritani – e aveva acquisito ben presto una notevole sensibilità politica; le lotte di quegli anni, inoltre, che squassano la società inglese, si fanno sentire an- che nell’università. In una lettera al padre, Locke ammette: Ho a lungo pensato che la più sicura condizione fosse quella di prendere le armi, cosa che avrei fatto, se avessi potuto risolvere il dilemma sotto quale insegna arruolarmi e per quale partito usare queste armi, e se avessi potuto esser certo di non versare il mio sangue solo per accrescere le fortune degli altri uomini e di non macchiarmi di crimini per la loro ambizione di aumentare queste fortune. Le armi sono l’ultimo e il peggiore rifugio. Religione e politica E da tali lotte Locke ricava una ripulsa profonda nei confronti delle fazioni, spesso animate da un vero e proprio fanatismo confessionale che mette in pericolo l’ordinato assetto delle istituzioni. Quando un partito combatte in nome di Dio, infatti, tende ad attribuirsi tutta intera la verità, e la lotta non consente mediazioni o compromessi, diventando, ben presto, guerra civile. Del resto, l’elemento religioso aveva avuto un ruolo importante nel corso della Rivoluzione inglese: i dibattiti di Putney, dove nell’ottobre del 1647 l’esercito rivoluzionario di Cromwell e Faifax si fermò per deliberare sul modo di proseguire la lotta contro la Corona, e su quale regime politico instaurare, riflettono le diverse esperienze ecclesiali dei combattenti. Questi, più vivevano una dimensione assembleare e partecipativa all’interno della propria chiesa – sull’onda della Riforma portata in terra inglese -, più erano indotti ad una visione modernamente democratica dell’ordine politico. Quando, nel 1683, Locke sarà costretto alla fuga in Olanda, potrà assistere direttamente alla lotta fra accademici: le diverse scuole di pensiero si contendevano le cattedre di teologia, e nelle dispute intervenivano direttamente i poteri civili, perché era nell’università che si elaborava l’ etica pubblica del paese, soprattutto attraverso la formazione dei predicatori. Da queste esperienze Locke trae gli elementi per una riflessione sul rapporto fra la religione e la politica, fra le chiese e lo stato, che lo accompagnerà per tutta la vita, e verrà trattato nei suoi scritti sul ruolo del magistrato e sulla tolleranza. In generale, il filosofo inglese è favorevole ad una ampia tolleranza nei confronti delle religioni, riconoscendo la naturale libertà di ogni uomo per tutto ciò che riguarda la legge di natura e la legge divina; ammette dunque piena libertà alle diverse espressioni dei culti, convinto com’è della possibilità di convivenza fra cittadini di fedi diverse. Mette al bando, però, due categorie: gli atei, perché la mancanza di convinzioni religiose li priverebbe, secondo Locke, guadagnata la libertà e l’uguaglianza, vivono in una condizione di perenne conflitto; se sono liberi ed uguali, lo devono al fatto di essere fratelli: ma non possono dichiarare la loro fraternità, non possono comportarsi da fratelli, proprio perché, avendo ucciso il padre, hanno rifiutato il fondamento originario della loro libertà e uguaglianza. Si apre così lo scenario sulle nostre società attuali: democrazie individualiste, nelle quali i cittadini nascondono la loro fraternità e, per questo, non riescono neppure a dare piena attuazione alla libertà e all’uguaglianza, e nelle quali ai legami di solidarietà subentrano sempre di più le diverse forme di competizione animate dall’invidia. John Locke è stato uno dei maggiori fondatori del pensiero liberale, che ha, fra i suoi elementi essenziali, proprio la difesa dei diritti individuali nei confronti dello stato. Eppure, l’individualista Locke è abissalmente lontano da quella che sarà la prospettiva freudiana, pur vivendo proprio nell’epoca che ha inaugurato il parricidio politico moderno. È vero che egli rifiuta radicalmente l’idea che la paternità sia il principio del governo: il suo Primo trattato sul governo combatte proprio tale idea, propugnata da Robert Filmer. Questi ricorre – a modo suo – alla Sacra Scrittura, ai Padri della chiesa, alla tradizione monarchica, alla legge naturale, per stabilire che, poiché Adamo ha ricevuto da Dio la piena autorità sui figli, questa soggezione dei figli ai loro padri è l’origine di di quelle virtù che sono necessarie al cittadino; e i cattolici, perché, dovendo obbedienza al papa – cioè ad un sovrano esterno -, incrinerebbero il principio dell’unità politica del paese. Il magistrato ha però l’obbligo di intervenire nelle questioni religiose, e di imporsi sulle diverse chiese, là dove esse interferiscono col potere civile. Uccidere il padre-re Con oltre un secolo di anticipo su quella francese, la rivoluzione inglese aveva tagliato la testa al re. Sono questi due grandi casi storici moderni, in particolare, a fornire a Freud il sostegno fattuale per la formulazione della sua ipotesi sull’origine della società politica: l’idea centrale è che sia necessario un parricidio: i fratelli, per poter guadagnare la libertà, sono costretti ad uccidere il padresovrano per sottrarsi al principio di autorità, e poter così costituire una società di uguali, dove ogni individuo è libero. Questa teoria di Freud è diventata quasi un postulato intoccabile per molta riflessione politica contemporanea, nonostante sia carica di contraddizioni. I fratelli parricidi, infatti, ogni autorità regale. Da Adamo l’autorità passerebbe ai patriarchi ed arriverebbe fino ai tempi di Filmer: è il diritto di paternità – scrive questi nel Patriarca, o potere naturale dei re – che fonda l’autorità dei re. Il sovrano, nella prospettiva di Filmer, è un sovrano assoluto che domina sul proprio paese come su una proprietà privata. La polemica di Filmer è condotta prevalentemente contro i cattolici, e trova nel cardinale Bellarmino il suo bersaglio preferito; egli cita dei passi dal De laicis nei quali il Bellarmino ripropone la dottrina di san Tommaso; Filmer li giudica in un modo che, alle orecchie di oggi, suona molto lusinghiero per il santo gesuita: Ecco quanto dice il Bellarmino: in questi passi è contenuta l’essenza di tutto quanto ho letto o udito in difesa della libertà naturale dei sudditi; libertà che Filmer nega, e che invece Locke propugna. Appassionato studioso della Scrittura, il filosofo inglese spiega che il dominio sulle creature e sulla terra che Dio ha conferito ad Adamo non è esclusivo, ma in comune con i suoi figli e con tutti gli uomini: ognuno ha diritto di possedere ciò che ottiene col proprio lavoro e che gli serve per la propria sussistenza. Inoltre, per Locke il potere paterno non può essere trasmesso per eredità, perché viene dal fatto di diventare padri, e riguarda il bene dei figli finché essi non siano in grado di provvedere a se stessi. Il filosofico inglese, dunque, distingue nettamente la paternità dal diritto di proprietà; e separa, poi, il diritto di proprietà dalla funzione di governare la quale, diversamente dalla proprietà, non è diretta al bene di colui che governa, ma di coloro che sono governati. In tal modo, Locke distrugge lo schema sovrano-padrepadrone sul quale si reggeva il tradizionale assolutismo, aprendo la strada alla concezione liberale dello stato, ponendo le premesse per lo sviluppo della concezione democratica. L’amore e il contratto Ma in tutto il ragionamento di Locke non c’è affatto spazio per l’idea freudiana dell’uccisione del padre- sovrano. Ed è qui, soprattutto, che emerge l’ispirazione cristiana del filosofo inglese: nella sua concezione della natura umana, che egli riprende da quel grande teologo anglicano che fu Richard Hooker, e che ha un ruolo determinante nella sua proposta contrattualista. Per Hooker – e per Locke – gli uomini sono liberi ed uguali per natura; e queste libertà ed uguaglianza si esprimono attraverso una legge che non è solo religiosa, ma naturale: Una stessa naturale tendenza – scrive Hooker nella Politica ecclesiastica – ha indotto gli uomini a riconoscere che sono tenuti ad amare gli altri come sé stessi. Da tale amore reciproco, commenta Locke, sorgono i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri e derivano i grandi princìpi della giustizia e della carità. Ecco perché il contrattualismo di Locke è tanto profondamente diverso da quello di Hobbes. Gli uomini, nella teoria di Hobbes, non hanno né padre né madre, sono privi di origine e sorgono come i funghi. Non avendo un’origine, non hanno neppure un dise gno, una natura che li unisca gli uni agli altri, se non la tendenza – distruttiva – da parte di ciascuno, di possedere tutti i beni, di allargare senza limiti il proprio potere. È tale naturale propensione all’espansione dell’ io che genera lo stato di guerra continua, dalla quale Hobbes fa uscire l’uomo attraverso un contratto nel quale ciascuno cede definitivamente tutti i propri diritti: è così che nasce il Leviatano, lo stato onnipotente nato dalla paura che gli uomini hanno di perdere la loro vita, e che governa proprio attraverso la stessa paura. In Locke, invece, gli uomini sono figli di Dio, e dunque fratelli fra di loro; una fraternità che è inscritta nella loro natura sociale, e li rende capaci di vivere insieme, decidendo liberamente del proprio regime politico. Un regime le cui istituzioni dovranno sempre essere conformi alla natura fraterna del legame umano. Locke valorizza la condizione fraterna degli uomini; e proprio su di essa basa la loro libertà ed uguaglianza, senza che alcun parricidio freudiano si renda necessario. Un anniversario, quello di Locke, da celebrare con riconoscenza, perché aiuta a comprendere che anche alle origini del pensiero liberale c’è una profonda visione dell’uomo come essere sociale: l’individualismo radicale, le politiche della paura, tradiscono il liberalismo autentico più di quanto non lo attuino.

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