Jalta e mai più Jalta

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Ricorrono, in questi giorni, gli anniversari di molti degli avvenimenti cruciali che segnarono 60 anni fa la capitolazione del nazismo, la fine della Seconda guerra mondiale e l’assetto conseguente dell’Europa postbellica, cioè la sua spartizione. Certo, la storia non è ancora stata scritta tutta su quei fatti; e 60 anni, per il suo metro, non sono molti.Tuttavia consentono di attingere ancora alla testimonianza diretta di chi quegli eventi ha vissuto di persona e, al tempo stesso, di avere ormai da quelli un maggior distacco e quindi, si spera, più obiettività nel giudicarli. Il 17 gennaio l’Armata rossa, ferma ormai da tre mesi sulla Vistola, conquista Varsavia dopo avere calcolatamente consentito ai tedeschi di distruggere casa per casa la città che si era sollevata. Nella Prussia orientale le armate di Zukov sfondano in direzione del Baltico, provocando la fuga disordinata di centinaia di migliaia di civili lasciati in balia delle truppe che sfogheranno su loro anni di frustrazione e di angherie subìte durante l’occupazione tedesca. I forni crematori dei lager nazisti funzionano ancora a pieno ritmo per lasciare meno tracce possibili del genocidio. Ma il 27 gennaio anche Auschvitz viene liberata e il mondo conosce l’orrore dell’olocausto. Il 13 febbraio Dresda, la Firenze del nord, l’ultima città del Reich ancora risparmiata, perché città d’arte, stipata di profughi e sostanzialmente indifesa, viene rasa al suolo da un furioso bombardamento che provoca in una sola notte più di 35 mila vittime. Con Berlino ormai sotto il tiro dei cannoni russi, il fronte italiano è ancora inspiegabilmente fermo sull’appennino emiliano. La corsa delle armate alleate mira alla tana del nemico: al bunker dove Hitler, assediato, si illude di dirigere le operazioni belliche sperando nel miracolo di un’arma segreta che non ha. Il fronte occidentale resterà fermo sul Reno fino al 7 marzo, mentre cede quello dei Balcani: il 5 febbraio capitola Budapest, semidistrutta dopo un lungo assedio; il 13 febbraio i sovietici entrano a Vienna, mentre in Jugoslavia le truppe di Tito dilagano fino all’Adriatico. In Istria e in Dalmazia si consuma l’eccidio di 20 mila italiani trucidati nelle foibe dalle truppe di Tito, secondo un lucido piano di pulizia etnica teso a predisporre l’annessione di quelle regioni. Inizia la fuga di 350 mila italiani e matura il grande, non incolpevole equivoco di considerare costoro dei fascisti. Sono i giorni della conferenza di Jalta, la stazione balneare sul Mar Nero dove si riuniscono Roosevelt, Stalin e Churchill fra il 7 e il 12 febbraio per discutere del futuro assetto del mondo. È stata definita una leggenda, quella di Jalta, dove si consumò il tradimento dell’Europa, spartita dai vincitori come una vittima sacrificale. Un vero tradimento venne certamente operato non tanto nei confronti dei vinti, quanto di alcuni alleati, perché consegnò all’Unione Sovietica polacchi e cechi, che già erano stati fra le principali vittime del nazismo. Mentre la parte a occidente del continente restò imbalsamata per mezzo secolo, avendo appaltato sostanzialmente la propria difesa agli Stati Uniti. In realtà Jalta fu piena di ambiguità e oggi se ne discute molto: in parte certe decisioni erano state prese un anno prima a Teheran, altre furono pure e semplici costatazioni del fatto compiuto che solo una nuova guerra avrebbe potuto rimuovere, perché l’Armata rossa non avrebbe lasciato i territori già occupati. Nella sostanza, da quando caddero le ultime illusioni, Jalta divenne sinonimo di tradimento e tale rimase da allora nella percezione profonda degli avvenimenti che segnarono la fine del conflitto armato e l’inizio della guerra fredda, cioè nella memoria storica degli europei. Tant’è che quando si verificarono le insurrezioni popolari in Ungheria e in Cecoslovacchia, si disse che gli americani non potevano intervenire perché vincolati dagli accordi di Jalta. Non era esatto, ma col senno di poi si può convenire oggi che, per quanto doloroso, quell’atteggiamento evitò molto probabilmente un terzo conflitto mondiale. Jalta risulterà finalmente superata solo con l’implosione dell’Unione Sovietica nell’89. Intanto l’Europa occidentale aveva fatto grandi passi sulla strada della propria integrazione, non solo economica, e si mostrava pronta ad accogliere nell’Unione, sia pur gradualmente, tutti quei paesi che avessero voluto farne parte, a cominciare da quelli che storicamente erano stati veri e importanti protagonisti della sua storia. Era questa anche una riparazione dei torti, cioè dell’abbandono, da loro subìto dopo Jalta. Perché ricordare allora, si potrà dire, queste pagine della nostra storia, perché rievocare così ostinatamente lo spettro di Jalta? Penso che, come non si vuole dimenticare l’olocausto perché non abbia a ripetersi, anche l’atteggiamento antistorico, assolutamente ottocentesco, tenuto dai vincitori del Secondo conflitto mondiale a Jalta sia da ricordare. Un’Europa divisa, come l’abbiamo vista di recente, incerta sulle priorità da scegliere per il suo cammino futuro e ripiegata su interessi nazionali, si muove essa pure ancora su modelli di stampo decisamente ottocentesco. Non dovrebbero essere più ambizioni di potenza quelle che spingono i paesi europei a muoversi in una direzione o in un’altra, ma si dovrebbe guardare a tutti i paesi del mondo con spirito di collaborazione, quasi a futuri partner, e lavorare per potere essere visti da loro come tali. A Jalta, inoltre, non furono divise solamente le spoglie dell’Europa in sfere d’influenza dei vincitori, ma si presero accordi anche per il governo della nascente Organizzazione delle Nazioni Unite, attraverso un Consiglio di sicurezza in cui Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina avrebbero avuto, con il diritto di veto, quasi un potere assoluto. Era quello una sorta di peccato originale che avrebbe tolto all’Onu gran parte della sua credibilità. È chiaro che gli sviluppi previsti con l’ingresso di nuovi paesi nel Consiglio si tingono ancora dello stesso peccato, il peccato di Jalta.

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