Italia, dal declino alla prosperità inclusiva

Dobbiamo finalmente capire cosa non va nell’economia italiana e procedere con riforme strutturali. Non tutto è perduto. È possibile una riscossa civica e politica

Il declino italiano dura da 20 anni. Ben poco è rimasto del “boom economico”, espressione di quel capitalismo precoce delle città italiane, in grado di «irradiare la propria luce per tutto il mondo, per alcuni secoli», come affermato dallo storico Fernand Braudel.

Tra il 2000 e il 2015 il Paese ha fatto registrare il più basso tasso di crescita al mondo e la più lunga recessione dell’eurozona e oggi sembra ancora perdere terreno rispetto agli altri Paesi sviluppati. Alla domanda circa le cause che provocano il declino o che bloccano il Bel Paese, si può rispondere che queste, risalenti a tempi senz’altro lontani, sono diventate via via “vincoli” per lo sviluppo sulla frontiera della produttività totale dei fattori. Si è bloccato il modello di crescita con la conseguenza inevitabile di scarsa produttività, accentuazione del divario Nord-Sud, instabilità del sistema politico e aumento oltre misura del debito pubblico.

La società si è avvolta perciò in una spirale che ha seriamente compromesso l’equilibrio economico, sociale e politico anche per le mancate riforme strutturali che avrebbero dovuto caratterizzare la cosiddetta Seconda Repubblica. È mancato in sostanza l’adeguamento del suo modello di sviluppo al nuovo contesto internazionale. Quattro sarebbero stati gli shock che, con una diversa struttura dell’economia, avrebbero potuto essere una opportunità di crescita: la rivoluzione dell’ICT (Information and Communication Technologies), l’accelerazione della globalizzazione, l’ascesa dell’India e della Cina e l’adozione dell’euro. Si è finito invece per bloccarla perdendo, dalla metà degli anni ’90, la «capacità sociale di crescita» sostenibile e inclusiva.

C’è poi anche una ragione tutta interna al declino che stiamo vivendo. Dopo aver colmato il divario di produttività con i Paesi più avanzati attraverso il cambiamento strutturale e l’adozione di tecnologie straniere più innovative, altri fattori di crescita come adeguate istituzioni, lo sviluppo della ricerca, una maggiore attenzione al capitale umano, le infrastrutture fisiche e immateriali. È proprio in mancanza di questi si è verificato l’indebolimento delle grandi imprese, la cui importanza resta sistemica, come pure la falcidia di quelle piccole e la crescita enorme del debito pubblico, causa prima dell’aumento dei tassi di interesse e della pressione fiscale.

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Fattori che hanno provocato l’allargamento in termini qualitativi del divario degli investimenti nella ricerca e sviluppo, ad esempio nelle industrie High Tech. Hanno perciò perso importanza i brevetti e la capacità di generare endogenamente il progresso tecnologico. Abbiamo avuto un “decadimento” o “declino” del sistema di innovazione italiano, specialmente nei settori della rivoluzione digitale. L’Italia in sintesi, anche per scarsità di capitale umano, ha perso l’occasione, nella fase storica 1995-2019, di sfruttare la rivoluzione informatica, la “tecnologia a scopo generale”, per accrescere la propria produttività e competitività.

In questa cornice problematica, va sottolineata l’eredità lasciata ai figli: Il debito pubblico. Il fardello che ci portiamo addosso e che, come già ricordato, rallenta la nostra crescita.

Il sistema non può durare. Occorre guardare la realtà italiana senza ipocrisie e porsi le domande fondamentali come fa Stefano Feltri in “7 scomode verità che nessuno vuole guardare in faccia sull’economia italiana”. L’Italia tornerà a crescere? Perché manca il lavoro nel Bel Paese? Le lauree sono tutte uguali o alcune servono di più? Stanno peggio i giovani o i pensionati? Perché non riusciamo a tagliare le spese inutili da decenni? Chi ha generato l’enorme debito pubblico? La tassazione è eccessiva o gli evasori sono troppo furbi?

Dobbiamo finalmente capire cosa non va nell’economia italiana. I dati sono chiari: troppo debito pubblico, tasse eccessive, insufficiente innovazione, debole difesa dalla globalizzazione, troppi cervelli che fuggono all’estero o che hanno lauree senza sbocchi professionali, troppi pensionati che pesano sul sistema del welfare.

Non tutto è perduto, però. L’Italia può farcela a riprendersi con idee innovatrici e fiducia nelle sue grandi potenzialità a condizione che non si dia spazio ai luoghi comuni, ad accuse reciproche e considerazioni di comodo. Lo Stato deve affrontare subito questi problemi, e noi dobbiamo porci domande serie sulla mancanza di una classe dirigente responsabile, saggia e lungimirante, sia al governo sia all’opposizione. È urgente una “riscossa civica”, una rifondazione dei partiti per la selezione dei politici e una maggiore fiducia in noi stessi.

Da qui può partire entro il 2023-2030 un processo di “prosperità inclusiva”, con il contributo determinante del Terzo Settore, dell’economia civile e delle forze imprenditoriali sane, della Pubblica amministrazione, delle amministrazioni locali e delle formazioni intermedie. Va individuata una strada nuova, accanto alle riforme strutturali, per limitare le rendite, riorientare i profitti per distribuire risorse e opportunità.

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Questa sfida in Italia è in mano alle grandi imprese, alle medie o multinazionali tascabili, al Terzo Settore, ma, come ha dichiarato Paolo Venturi, direttore dell’Aiccon (Associazione Organizzazioni Non Profit),«il capitalismo non è riuscito ad essere inclusivo e tale sfida non può che essere giocata dall’economia civile». In sostanza il benessere dei lavoratori, l’equità, la cura delle comunità e il rispetto dell’ambiente devono venire prima di qualsiasi business.

Occorre per questo ripensare a un’«ecologia integrale» – come afferma papa Francesco – che comprenda la dimensione umana e sociale, «inseparabile dalla nozione di bene comune» intesa concretamente nel contesto di quell’oggi, in cui «si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone scartate e private dei diritti umani fondamentali».

Impegnarsi per il bene comune, significa fare scelte solidali sulla base di «una opzione preferenziale per i più poveri». È questo anche il modo migliore per lasciare un mondo sostenibile alle prossime generazioni, non attraverso proclami, ma con l’impegno di “cura” e “promozione umana”, «oltre alla leale solidarietà intergenerazionale». Solo così la prosperità inclusiva potrà creare valore da distribuire equamente a chi rimane indietro, nella comunità, e non come mera elargizione.

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