Italia, alle origini della crisi industriale

Intervista a Stefano Zara, già presidente di Assindustria Genova, sulle strategie di politica industriale operante nel nostro Paese a partire dalle scelte effettuate su Finmeccanica, ora Leonardo.
ANSA/LUCA ZENNARO

A partire dalla vicenda dell’Ilva, strettamente collegata al settore manifatturiero, si parla, oggi, per l’Italia di “perdita di sovranità industriale”. Un fatto che non nasce certo in questi giorni. Già il sociologo Luciano Gallino analizzò, a partire da alcuni casi concreti, nel 2003, la “Scomparsa dell’Italia industriale”.

Si tratta di scelte determinanti il nostro futuro e che merita approfondire non solo per una ricerca storica ma per capire la possibile inversione di tendenza. Per questo motivo è importante ascoltare la testimonianza di Stefano Zara, presidente Confindustria Genova dal 1996 al 2000, ai tempi, cioè, dei cosiddetti anni di piombo ha ricoperto il ruolo di direttore del personale all’Ansaldo, gruppo Iri, di Genova, proprio negli anni dell’assassinio del sindacalista Guido Rossa da parte delle Br.

Ha sempre espresso, con autorevolezza, la contrarietà verso le scelte operate dai vertici di Finmeccanica, ora Leonardo, di dismettere aziende strategiche in campo civile a favore del potenziamento del settore militare. Una linea di politica industriale, condivisa da governi di diverso colore, che ha finito per impoverire il patrimonio di competenze concentrate in una delle città che, da decenni, sconta più duramente le conseguenze di quella che viene definita come la più grave crisi economica del dopoguerra.

Che strategie ha seguito, a suo giudizio, Finmeccanica nel contesto genovese?
La scelta di politica industriale di concentrare la produzione di Finmeccanica ora Leonardo parte da lontano, dagli anni ’90, e ha avuto come fonte ispiratrice la grande società statunitense di consulenza Mc Kinsey, sul presupposto di privilegiare il core business, piuttosto della diversificazione dell’attività produttiva. Una direttiva seguita ininterrottamente negli anni nonostante i cambiamenti dei vertici dell’azienda fino all’impennata registrata con la gestione di Mauro Moretti, ex Ad di Ferrovie dello Stato, che ha operato in questo senso, dal 2014 al 2017, con una determinazione degna di miglior causa. Proprio in un momento in cui il comparto civile esprimeva realtà produttive di tutto rilievo come Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, aziende sane che producevano fior di utili. Società, quindi, vendute per finanziare il settore militare. D’altra parte Finmeccanica aveva già scelto, nel 2008, di acquisire un’importante società statunitense del comparto difesa. La  DRS Technologies. Ha prevalso quindi la tesi di smobilitare gli investimenti nel civile per concentrarsi in quello militare, con conseguenze pesanti su Genova, che aveva una produzione concentrata proprio nel civile. In due settori, inoltre, come energia e trasporti, che sono strategici per il Paese.

Ha avuto modo di confrontarsi direttamente con Finmeccanica? Su questi temi ho avuto modo di interloquire in più occasioni con i vertici di Finmeccanica  Pier Francesco Guargaglini (responsabile settore Difesa di Finmeccanica 96-99 e poi amministratore delegato dal 2002 al 2011) e Giorgio Zappa (direttore generale al 2004 al 2011) che hanno sempre fatto presente che gli indirizzi strategici sulle delicate materie di politica industriale da me chiamate in causa erano di competenza delle istituzioni governative ed era in quelle sedi che loro esprimevano i loro orientamenti. Così, ho riproposto ai decisori politici tutte le critiche, verso questo orientamento strategico, quando per 18 mesi, a partire dall’ottobre 2004 all’aprile 2006, sono stato eletto deputato, esponendo il solo simbolo dell’Ulivo, con un voto suppletivo in un collegio di Genova, tradizionalmente di centrodestra. La mia azione era strettamente legata agli interessi della città, ad uno sviluppo del territorio compromesso dal piano di dismissione avviato da Finmeccanica. E tuttavia questo ragionamento era collegato al fatto evidente che una concentrazione nel settore difesa avrebbe comportato, nelle migliore delle ipotesi, la riduzione delle imprese ad un’attività di officina del ministero della Difesa e, comunque, una perdita di autonomia verso i trafficanti di armi e le lobby del settore.

Alcuni analisti fanno notare la nostra riduzione a subfornitori della committenza delle grandi società statunitensi che decidono le vere strategie industriali…
Non c’è dubbio. Ansaldo Energia è stata, di fatto, acquisita dai cinesi dai quali è quasi del tutto dipendente per ragioni di mercato anche se Cassa Depositi e Prestiti detiene una quota di maggioranza. Ansaldo Sts è stata ceduta ai giapponesi della Hitachi. I miei interventi sono stati incentrati sulle linee di politica industriale, condivisi dalla collega deputata Roberta Pinotti, al tempo convinta sostenitrice del settore civile.

L’esponente dem è poi stata nominata Ministro della Difesa, cambiando linea su questi temi. Come è stato, invece, il suo itinerario politico?
Nel passaggio dal sistema dei collegi elettorali a quello del cosiddetto Porcellum a liste bloccate, mi hanno proposto, nel 2006, una collocazione tale che non permetteva l’elezione, con la promessa di essere ricollocato in qualche ruolo manageriale. Offerta che ovviamente non ho accettato.

Cosa ha significato la cessione di Ansaldo Sts e Ansaldo energia?
La cessione ha comportato notevoli entrate per Finmeccanica. Ansaldo Energia produceva utili preziosi, anche perché veniva da un processo di risanamento. Per quanto riguarda Ansaldo Sts, abbiamo perso un patrimonio di conoscenze che poneva questa società come leader a livello mondiale con particolare attenzione ai sistemi di segnalamento, una materia di avanguardia tecnologica dei sistemi di sicurezza connessi all’automazione. Prima ancora delle commesse, le società subentranti hanno potuto acquisire una patrimonio di conoscenze specialistiche.

Da questa operazione ne è conseguita qualche delocalizzazione all’estero?
No, questo finora non è avvenuto per Ansaldo Sts. E si sa che non è nello stile di Hitachi. Relativamente ad Ansaldo Energia, la presenza di Cassa Depositi e Prestiti rappresenta una garanzia.

A parte le entrate dalla cessione, quale strategia si può intravedere in queste scelte?
Non riesco davvero a vederle. Ad essere sincero la carenza, meglio l’assenza, di politica di industriale ha la sua origine nella decadenza progressiva del nostro Paese dopo l’esaurirsi, negli anni ’70, della spinta della ricostruzione post bellica. Posso testimoniare di aver visto in quegli anni, lavorando nel settore delle partecipazioni statali, la consapevolezza e l’orgoglio dei dirigenti nel poter partecipare alla crescita dell’Italia in settori di avanguardia in termini industriali. Eppure, partecipando, come parlamentare, alla commissione dello sviluppo economico guidata da Bruno Tabacci, allora nel campo di centro destra, ho potuto leggere analisi di grande intelligenza e spessore, senza effetto alcuno nella realtà. E non c’è stato, sotto questo aspetto, alcun cambiamento con il variare del colore dei governi.

Prima parte – continua

 

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