Israele: il ritorno di Netanyahu

Come molti speravano, e quasi altrettanti temevano, la nuova coalizione di destra (più a destra di prima) guidata da Benjamin “Bibi” Netanyahu ha vinto le elezioni israeliane del 1 novembre.
Benjamin Netanyahu (AP Photo/Tsafrir Abayov)

La maggioranza questa volta sembra più definita, dopo 5 elezioni in meno di 4 anni in cui il margine della maggioranza si giocava su pochissimi seggi, e infatti reggeva soltanto qualche mese.

Stavolta la coalizione “compilata” da Netanyahu (Likud, Sionismo religioso e 2 partiti ultraortodossi) avrebbe raccolto 64 seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano che conta 120 seggi complessivi. E la coalizione di opposizione (5 partiti eterogenei), che fino a qualche giorno fa era maggioranza, non andrebbe oltre quota 51. I rimanenti 5 seggi andrebbero al partito arabo Hadash Ta’al che correva da solo.

Evidentemente ci sono partiti che non hanno superato la soglia di sbarramento del 3,25%, e che quindi non entrano in Parlamento: tra questi, per la prima volta, ci sarebbe lo storico partito di sinistra: Meretz. I dati ufficiali non sono ancora noti, ma non dovrebbero riservare sorprese, anche se qualche seggio si spostasse.

I commenti opposti sono abbondanti e spesso pesanti, soprattutto sui media internazionali, con lapidarie accuse di fascismo da una parte e di incapacità o peggio dall’altra. Senza poter qui entrare nelle diatribe, molte delle quali comprensibili anche quando non condivise, è utile rilevare alcuni scenari che potrebbero aprirsi con questo voto. Certamente non tranquillizzanti, come sempre negli ultimi 74 anni, quando si parla di Israele. Anche perchè la quadratura del cerchio non è stata ancora dimostrata in geometria come pure, tra l’altro, nella geopolitica mediorientale. Ma non solo in quelle.

Un primo rilievo che balza agli occhi è l’affermazione, nella coalizione di maggioranza, di una formazione di destra-destra, fondata nel 2012 e mai entrata in Parlamento fino al 2021, che con 14 seggi risulta il terzo partito del Parlamento: si tratta di Sionismo religioso (Otzma Yehudit: Potere ebraico) capitanato da Itamar Ben Gvir, difensore degli insediamenti di coloni ebrei in Cisgiordania e favorevole al “trasferimento” di tutti gli arabo-israeliani (20% della popolazione) all’estero.

Una seconda doverosa considerazione sulla tornata elettorale del 1 novembre è l’elevata affluenza al voto: oltre il 71%, cosa che non accadeva a quanto pare dal 1999. Un fatto che probabilmente è da ascriversi in buona parte anche alla preoccupazione di molti elettori ebrei (anche in precedenza non votanti) di fronte alla recente ripresa e incremento di attacchi terroristici da parte di formazioni palestinesi.

La terza considerazione riguarda la fine dell’alleanza dei 4 partiti arabi, che uniti avevano ottenuto 15 seggi nel 2020. Poi nel 2021, uno di loro, il partito Ra’am, guidato da Mansour Abbas, ha fatto addirittura parte della coalizione di maggioranza Bennet-Lapid. L’esperienza della Lista Unita dei 4 partiti arabi aveva attirato nel 2020 anche alcune migliaia di israeliani ebrei, che avevano sperato di contribuire così a creare una alternativa di sinistra a Netanyahu. Anche se l’operazione era riuscita (con la risicatissima maggioranza del governo uscente), non poteva durare essendo basata solo sul contrasto a Netanyahu e alla destra ultraortodossa. Così con la fine della Lista Unita e della breve e deludente stagione di Ra’am nella maggioranza, è venuta anche meno la speranza di quegli elettori arabi, ma non solo, che avevano sostenuto l’idea di una partecipazione degli arabo-israeliani al governo del Paese.

Un’ultima considerazione riguarda poi il fatto che la vittoria della destra deve non poco anche alla sconfitta e alla quasi scomparsa della sinistra, sopraffatta dalla vittoria degli avversari ma anche, e forse soprattutto, da una cronica mancanza di visione aggregante e dalla conseguente continua frammentazione interna. Una sconfitta di misura che parla di identità smarrita, che potrebbe rivelarsi un pericolo per la democrazia.

Per quanto riguarda il governo designato da questa vittoria della destra, l’incarico dovrebbe andare a Netanyahu (leader del Likud, il partito di maggioranza relativa), che potrebbe così battere il record di longevità come premier di Israele, superando David Ben Gurion, fondatore dello Stato. E un nuovo governo Netanyahu potrebbe anche significare l’impasse dell’iter giudiziario attualmente in corso contro il leader del Likud.

Un timore da molti espresso, anche a livello internazionale, sarebbe l’incarico di ministro per la sicurezza interna affidato a Gvir, il leader di Sionismo religioso. Sia Usa che Emirati Arabi Uniti (che hanno sottoscritto i Patti di Abramo) hanno espresso preoccupazione per questa ipotesi, alla quale Gvir peraltro aspira, ma che potrebbe innescare problemi a non finire all’interno e all’estero, se il leader della destra radicale non adotterà una prospettiva come minimo meno intransigente di quella finora espressa. È possibile che questa “moderazione” appartenga alle regole di ingaggio concordate con Netanyahu. Ma gli elettori di Gvir saranno d’accordo?

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