Israele, Netanyahu pronto a tornare al governo

Di nuovo lui, questa volta con il sostegno, causato dall’emergenza coronavirus e dalla conseguente crisi economica, del “nemico” Gantz. Con il Netanyahu V si eviteranno le quarte elezioni in un anno.
Un cartellone stradale raffigura Benny Gantz e Benjamin Netanyahu, foto Ap

«Sarà un governo di emergenza nazionale», ha twittato la settimana scorsa Benny Gantz, leader della coalizione Kahol Lavan (blu e bianco), annunciando l’accordo di governo con l’avversario politico Benjamin Netanyahu, leader del Likud e inossidabile navigatore della politica israeliana, quattro volte primo ministro di Israele, ininterrottamente dal 2009. Anche se non incomprensibile, vista l’emergenza coronavirus, la scelta di Gantz è comunque sconcertante, dopo che per un anno aveva bollato Netanyahu come «pazzo» e «dittatore corrotto», per non citare che gli epiteti più moderati.

Tenuto conto dell’epidemia da Covid-19 e della grave situazione economica provocata dal lockdown, tornare al voto per la quarta volta in un anno dopo tre tornate elettorali con esiti non risolutivi era improponibile e verosimilmente inutile. Per formare il governo, in Israele, occorre una maggioranza di almeno 61 deputati sui 120 della Knesset (il parlamento unico israeliano), ma né la coalizione della destra con i partiti religiosi guidata da Netanyahu, né quella concorrente di centro-destra guidata da Gantz, erano riuscite nell’ultimo anno a mettere insieme il fatidico numero di 61 deputati.

Da lì, la trattativa e l’accordo fra i due avversari politici: Gantz ha portato in pratica i suoi 17 deputati centristi (Hosen l’yisrael) nella coalizione guidata da Netanyahu, fornendo così i numeri per ottenere la maggioranza alla Knesset e la formazione del governo. Dopo l’accordo, la reazione degli ormai ex alleati di Gantz è stata immediata: Yair Lapid (leader del partito di centro-destra Yesh Atid) e Moshe Yaalon (leader del partito di destra Telem) se ne sono andati sbattendo la porta e portandosi dietro oltre ai loro 19 deputati anche il nome della ormai defunta coalizione Kahol Lavan. Dalla porta accanto sono usciti, delusi, anche i 15 deputati della Lista unita araba, che aveva appoggiato dall’esterno la candidatura di Gantz, in funzione anti-Netanyahu.

Ci sarà quindi in Israele un quinto governo Netanyahu? Sembra di sì, perché nel quadro istituzionale ogni soluzione alternativa appare realisticamente ormai impraticabile. Netanyahu, secondo l’accordo sottoscritto con Gantz, sarà il premier per i primi 18 mesi, poi dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) lasciare l’incarico a Gantz.

Per capire un po’ di più, almeno a grandi linee, ciò che sta dietro a questa trottola di schieramenti e ribaltoni è indispensabile fare due brevi considerazioni, una storica e una istituzionale. Quella storica riguarda la ormai scarsissima incidenza in Israele della sinistra socialdemocratica. Una sinistra che per decenni aveva espresso forti personalità come Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin e Shimon Peres. I due principali epigoni socialdemocratici (Meretz e Labour), che si erano presentati insieme alle ultime elezioni accanto a Kaohol Lavan, dopo l’accordo Gantz-Netanyahu si sono separati: il partito Meretz ha scelto di stare all’opposizione insieme a quel che resta di Kahol Lavan e il partito laburista appoggia invece, accanto a Gantz, il Likud di Netanyahu e i partiti religiosi che sostengono il governo, decretando così la quasi scomparsa della sinistra.

La seconda considerazione è quella istituzionale: lo Stato israeliano, che non ha una vera e propria Costituzione, ha adottato fin dalla sua nascita una legge elettorale basata su un proporzionale puro a liste chiuse (e sbarramento al 3,25%). Questa scelta fu all’epoca determinata dalla necessità di dare rappresentanza alle numerose componenti di una società molto sfaccettata. Ma nel tempo ha finito per favorire l’entrata in parlamento di una grande quantità di piccoli partiti che sono diventati l’ago della bilancia delle scelte politiche, perché sono determinanti nella formazione delle coalizioni di governo, dato che nessun partito riesce da solo ad avere la maggioranza necessaria per governare.

Il sostegno a Netanyahu di una larga base elettorale, inoltre, ha radici non solo politiche. Per molti anni la paura di un attentato, di morire, di perdere un figlio o un familiare ha accompagnato ogni giorno la gente, israeliani, ma anche arabi. Dopo l’affermazione di Netanyahu, nel 2009, il clima di paura ha smesso di esistere. Di fronte a questo fatto, nessuna considerazione sui meriti o demeriti del premier è finora riuscita a scalfire in molti ebrei israeliani la convinzione che occorre mantenere comunque Netanyahu al governo del Paese. Anche se è accusato dalla magistratura di corruzione, frode e abuso d’ufficio, ed è sempre più condizionato dai suoi alleati religiosi.

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