Isabel e una classe di bambini difficili

Una storia che dà speranza, con la testimonianza di una maestra che lavora in una scuola per la prima infanzia in cui sono molti gli alunni che arrivano da contesti di disagio
(Foto: Pexels)

Oggi mi è capitata una di quelle storie che danno speranza. Ho conosciuto Isabel, una giovane maestra di 27 anni, educatrice della prima infanzia, che ha da poco iniziato il suo primo impiego come insegnante di sostegno in una scuola primaria a Murcia, sulla costa mediterranea della Spagna.

Isabel mi racconta che la sua è una classe considerata “difficile da gestire” perché la stragrande maggioranza dei bambini sono immigrati, zingari o provengono da una famiglia problematica. «Le prime settimane – dice – sono state molto difficili, i bambini non mi hanno accettato e io li guardavo più con pietà che professionalità. Non vedevo come avrei potuto raggiungerli, non sapevo come fare per trattare con quei bambini».

Però poi ce l’ha fatta. Racconta che si è perfino lasciata pettinare dalle bambine, «che mi hanno fatto trecce e acconciature impossibili».

Di ritorno dalle vacanze di Natale, Isabel ha percepito che i bambini tornavano a scuola un po’ tristi, volevano passare più tempo da soli che con i compagni di classe. Che sia per la sua preparazione professionale o per la sua formazione spirituale, Isabel ha subito intravisto in loro un certo abbandono e ha voluto indagare su quale poteva esserne la causa. I bambini però non volevano parlare: «Mi hanno detto di no, di lasciarli in pace». Che fare?

«Mi sono seduta accanto a loro in silenzio, dicendo che volevo solo sedermi lì, che se non volevano parlare, andava bene, ma così ci tenevamo compagnia per un po’». Così durante una settimana, e più di una volta Isabel si è vista circondata da tre o quattro bambini a farsi compagnia accanto a lei. La formula funzionava, non disturbava i bambini, non la sentivano per niente invadente. Anzi, altri bambini con problemi vedevano che, per il fatto di stare insieme, rendeva i compagni più tranquilli. Così anche «quelli che avevano difficoltà a gestire la rabbia o non erano in grado di controllare gli impulsi, a poco a poco si sono avvicinati e mi dicevano: sono molto nervoso, rimango qui con te».

Per Isabel l’esperienza è stata senz’altro più illuminante che tante lezioni di pedagogia. Era l’esperienza diretta a collaudare le intuizioni di una giovane maestra: «Ho potuto costatare che a volte tutto ciò di cui avevano bisogno era la compagnia e il silenzio». Anzi: «Ora i bambini che hanno problemi al di fuori della scuola chiedono, a me o ai miei colleghi, di stare con loro, così possono parlarcene». I bambini, certo, sono consapevoli che i loro maestri non possono risolvere certe situazioni, ma dopo si calmano e possono andare a giocare sapendo che c’è qualcuno che si prende cura di loro e con cui possono parlare senza sentirsi giudicati.

A questo punto Isabel tira fuori un episodio che proprio mi ha lasciato a bocca aperta: «Un giorno stavo ammonendo un bambino senza sapere che aveva problemi a controllare la rabbia. Proprio in quel momento la sua rabbia è venuta fuori e lui mi ha colpita con tutto ciò che poteva, calci, pugni… La mia unica risposta è stata di proteggermi in modo da prendere meno colpi possibile, cercando soprattutto di fare in modo che gli altri bambini non si avvicinassero, che non prendessero colpi. Ho chiesto a qualcuno più vicino di avvisare i miei colleghi, e non appena ne ho intravisto uno che si avvicinava il cielo si è aperto, perché stavo davvero passando un brutto momento. Hanno portato via il bambino per isolarlo. Ma alla fine della giornata proprio quel bambino è venuto a scusarsi con me. Non capiva cosa gli fosse successo ed era veramente dispiaciuto. In quel momento gli ho detto di sì, che l’avevo perdonato e che non c’era niente; ma in realtà non l’avevo perdonato, mi aveva dato dei colpi che proprio facevano molto male. Poi una collega mi ha chiesto se stavo bene e sono scoppiata a piangere.

Nei giorni seguenti il ​​bambino continuava a chiedermi scusa, e io continuavo a dirgli che lo perdonavo. Poi mi ha detto che gli dispiaceva tanto e mi ha abbracciata. Quello è stato il momento in cui sono riuscita a perdonarlo».

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