Iraq, l’altra faccia della guerra

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È solo un dettaglio, purtroppo, a questo punto. Manca infatti solo da decidere il giorno. Dopo che il segretario di Stato Usa, Colin Powell, ha portato all’Onu, il 5 febbraio scorso, intercettazioni e foto quali prove, pur discutibili, contro Saddam Hussein, pochi dubbi permangono sull’attacco armato. Fonti del Pentagono sostengono che le ostilità inizieranno a marzo. Dall’Asia all’Europa, dal Medio Oriente agli Stati Uniti, gli esperti di questioni militari e di politica internazionale interpellati dall’agenzia d’informazione Reuters ritengono che “la guerra sia molto probabile. Scoppierà in marzo e tutto sarà finito al massimo entro giugno”. “Più a lungo le truppe americane restano nell’area senza invadere, più diventa un problema politico per Bush”, sostiene l’inglese Toby Dodge, dell’università di Warwick. Gli Stati Uniti hanno ormai dislocato in prossimità dell’Iraq 150 mila uomini, cinque sono le portaerei nel Golfo Persico, mentre l’aviazione è pronta al decollo da Turchia, Kuwait Arabia Saudita, Qatar, Gibuti e Oman. Non si spostano così tanti militari se non si vogliono utilizzare sul serio. Ormai l’attacco sembra inevitabile. E il regime iracheno si sta predisponendo a vendere cara la pelle. Sembra che abbia dislocato i missili Scud, nonostante i controlli degli ispettori Onu, nel nord-ovest per colpire Israele e Giordania, nella zona nord, tra le foreste di Mosul, da cui minacciare la Turchia, e nei dintorni di Bassora, al sud, per inviarli contro Kuwait, Arabia Saudita e Qatar. A Bagdad, intanto, cresce la retorica dello scontro frontale. Saddam ha avvertito che “gli americani avranno un milione di morti e resteranno lontani da Bagdad, perché i giovani iracheni avranno la meglio”. Il vice-presidente Taha Yassin Ramadan annuncia il ricorso a uominibomba: “Non possediamo missili a lunga gittata e neppure bombardieri, però abbiamo i nostri martiri pronti a immolarsi con i loro corpi. Sono le nostre nuove armi”. Poi, aggiunge minaccioso: “E non le useremo solo in Iraq”. Difficile capire se queste affermazioni raccolgano davvero l’adesione popolare. Alcuni diplomatici stranieri presenti in Iraq – riportano le agenzie di stampa – parlano di “regime con l’acqua alla gola e con una crescente perdita di consensi tra la gente “. Queste le informazioni che ormai da settimane i media diffondono. E non c’è da dubitarne. Ma come vive la popolazione irachena? Gli occidentali presenti nel paese e quanti sono venuti in Italia riferiscono che la minaccia della guerra è logorante per la gente, che l’angoscia si diffonde tra tutti. Si cerca di fare approvvigionamento di quel poco che si trova, immaginando le conseguenze di possibili bombardamenti. Ecco che sono ricercate le lampade a petrolio: “Se colpiscono le centrali elettriche, questa volta vogliamo essere attrezzati”. Della popolazione civile irachena si parla troppo poco sui mezzi d’informazione internazionali. Sembra solo un fattore accessorio rispetto alle dichiarazioni diplomatiche sui possibili sviluppi della crisi, che invece sono oggetto di continue disquisizioni su stampa e tivù. È allora proprio il caso di prestare ascolto a qualche voce autorevole e disinteressata che parla della condizione degli iracheni. “Il popolo vive nella paura, perché ogni giorno arrivano notizie peggiori, ogni giorno la preoccupazione aumenta. Per questo il popolo prega il Signore e implora che questa guerra non venga”, ha precisato recentemente mons. Salomon Warduni, vescovo ausiliare della Chiesa caldea a Bagdad, di passaggio in Italia. “È un popolo maltrattato, i bambini sono schiacciati dal terrore e i giovani vedono davanti a sé solo un futuro di guerra”, dice accorato, stigmatizzando che “la popolazione non ha alcuna fiducia nell’America e nell’occidente, che predica pace e libertà per l’Iraq mentre lo soffoca da dodici anni con l’embargo”. Fa presente che il fanatismo contro i cristiani (3 per cento della popolazione) è aumentato proprio a causa dell’embargo, e che è un gran male l’identificazione tra il cristiano e l’occidentale. Durante il Ramadam, tutti i cristiani iracheni sono stati coinvolti per la prima volta in una giornata di digiuno e preghiera per implorare la pace. Ma in quest’ultimo tempo le prospettive si sono fatte più inquietanti. Del probabile attacco bellico si conosce la strategia. Sembra la cronaca de “L’invasione minuto per minuto”. Il generale Wesley Clark, ex comandante delle forse Nato in Europa, è ricco di dettagli. “All’inizio ci saranno bombardamenti molto selettivi, ma assai efficaci. Dopo 6 o 7 giorni si muoveranno le armate di terra con i carri. Lo faranno sia prendere le armi di distruzione, sia per evitare il collasso del paese. In una settimana saranno alla periferia di Bagdad. Se ci saranno resistenze, nuovi bombardamenti piegheranno le ultime sacche di resistenza dei difensori di Saddam. Ma opereranno anche le truppe speciali che prenderanno di mira gli obiettivi principali. La guerra non durerà oltre tre settimane”. Tutto perfetto. Sembra un intervento chirurgico. Senza spargimento di sangue e, soprattutto, senza costi umani tra la popolazione civile. Nessuno però dimentica gli esiti delle bombe intelligenti nella guerra del 1991, quando, di fatto, l’Iraq non venne invaso, se non in minima parte. Oggi, con la necessaria conquista della capitale, le conseguenze sarebbero peggiori. Uno studio dell’Undp, il programma Onu per lo sviluppo, fa intuire quello a cui potrà andare incontro la popolazione irachena. L’indagine ha stimato in 30 miliardi di dollari per i primi tre anni i costi della ricostruzione del paese in caso di guerra. Mons. Warduni dà voce alla sua gente: “L’America manifesti apertamente i propri fini: dica che è una regolarmenguerra degli interessi e del petrolio. E che Saddam è un pretesto”. Aggiunge: “La democrazia e la libertà devono essere scelte, non imposte con le bombe. La vera liberazione che il popolo iracheno aspetta è quella dall’embargo”. Nel balletto di posizioni davanti alla crisi irachena anche in Consiglio di sicurezza dell’Onu, appaiono sempre più sagge due domande che la lungimirante diplomazia vaticana continua a ripetere: ai fini della concordia con il mondo islamico, qual è il mezzo migliore per affrontare la crisi irachena? vale la pena irritare un miliardo di musulmani con la prospettiva di decenni di ostilità? Non occorre essere delle cime per convenire su un fatto: con le guerre si sa come si incomincia ma non come e quando si finisce. Ora più che mai sarebbe doveroso tenerne conto. “MI È BASTATO QUEL CHE HO VISTO” “Abbiamo visitato anche l’ospedale dove sono ricoverati i bambini affetti da leucemia e cancro a seguito dei bombardamenti del 1991 con l’uranio impoverito. Sono scene strazianti, uno si vergogna. Mi è bastato quel che ho visto”. Poco prima di Natale, l’on. Giovanni Bianchi, parlamentare della Margherita, già presidente delle Acli, si è recato a Bagdad assieme al Nobel per la pace, l’irlandese Betty Williams, per un viaggio umanitario. Ricevuti dal vice primo ministro Tareq Aziz, hanno accompagnato un carico di sette tonnellate di medicinali e una ventina di tonnellate d’abbigliamento per bambini. Scene drammatiche, ma non rimbalzano granché sui media internazionali. “Una cosa che non si conosce è il tragico contrappasso delle guerre di oggi: i figli di coloro che sono stati sottoposti a quei bombardamentinascono con malformazioni, ma altrettanto vale per i figli dei piloti o dei carristi che hanno sparato granate e bombe con ogive ad uranio impoverito “. Nella permanente situazione d’embargo, quali cure ricevono quei bambini? “La condizione è particolarmente triste. L’ospedale è in condizioni d’estrema povertà, molto pulito, ma i bambini vengono curati con… l’aspirina, nel senso che le cure abituali, dalla chemioterapia alla radioterapia, non possono essere usate perché i macchinari rientrano nell’ambito delle cosiddette tecnologie duali, quindi passibili di essere impiegate anche per fini bellici. Così tutto è limitato ad una terapia del dolore”. Ma l’embargo ha ancora una sua ragion d’essere? “È una figura internazionale da togliere. Ha rafforzato la dittatura di Saddam, perché crea un riflessonazionalistico contro i paesi che affamano l’Iraq; crea una classe di profittatori di guerra all’embargo; mette a rischio le esistenze dei più deboli, dei vecchi, dei bambini, delle donne; con ospedali senza garze, senza siringhe. Nonostante le opportunità che si sono aperte anche grazie all’intesa “Oil for food”, che prevede l’ingresso di cibo e medicine in cambio di petrolio, la situazione resta di totale precarietà “. L’attesa della guerra è palpabile nella gente? “È palpabile. C’è un’angoscia diffusa. Ed è una guerra difficile da spiegare alla nostra coscienza. Può innescare uno scontro di religione. Saddam è un dittatore sanguinario, ma è laico, viene dal socialismo arabo. Nei paesi islamici è difficile prendere messa, non c’è neanche una cappella. A Bagdad, invece, alle 17 della domenica nella chiesa di San Raffaele i frati celebrano regolarmen te messa. C’è una certa libertà di culto. Per questo, il fondamentalismo islamico vede Saddam come un avversario “. Morire per Bagdad.Vale la pena per i paesi occidentali? “C’è una sorta d’impegno missionario nel voler esportare e diffondere la democrazia. Ma se quest’operazione in Iraq comporta la reinvenzione di un Bagdad, un tale progetto non raccoglie le attese di alcun arabo. Il rischio è che il mondo islamico finisca non solo per ripararsi ma per odiare la nostra democrazia”. Le intenzioni sono tutte così nobili? “No, certo. Ci sono fonti americane che parlano con grande oculatezza dei giacimenti petroliferi che stanno nel paese. L’Iraq è il secondo produttore dopo l’Arabia Saudita, ma i due terzi del suo suolo non sono stati ancora scandagliati a sufficienza. Potrebbe perciò diventare il primo. E già le grandi potenze stanno mettendosi d’accordo, a partire dalla Russia di Putin, che si è già piazzata nella zona migliore. Anche Francia e Gran Bretagna, al di là del braccio di ferro attualmente in corso alle Nazioni Unite, si muovono in questa direzione”. La corsa all’oro nero era chiara. “Ma c’è pure una seconda ragione. L’Iraq è in una situazione quanto mai cruciale dal punto di vista della geopolitica mondiale. Da lì si guarda tutta l’Asia centrale e l’Arabia Saudita (non dimentichiamo che 15 dei 19 dirottatori dell’11 settembre erano sauditi)”. Ma, secondo lei, a livello internazionale si valutano a sufficienza le conseguenze di un conflitto armato? “Pensatori di varia estrazione, ma anche alcuni generali, sostengono che nessuna guerra è in grado di legittimare sé stessa se non per la pace che vuole stabilire e l’ordine che vuole instaurare. E qui sta la domanda che i tedeschi pongono in modo chiaro agli americani: diteci cosa farete il giorno dopo aver sconfitto Saddam?”. Quale ordine possibile? “Due prospettive. Un ordine che veda la potenza americana nel concerto delle organizzazione internazionali, con un’Onu che riprende dignità e ruolo, e così pure il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione del commercio mondiale. Oppure una logica imperiale, che ha fatto dire al presidente Bush: la nostra pazienza è finita, noi ci muoveremo lo stesso, con o senza il beneplacito dell’Onu”. Certo, ma resta senza fondamento il concetto di guerra preventiva. “Va segnalata al riguardo la grande iniziativa della diplomazia vaticana. Il card. Sodano afferma che è nell’ambito dell’Onu che le decisioni vanno maturate, e che il termine “guerra preventiva” non fa parte del lessico del diritto internazionale”. Sì, ma tutto viene ridotto ad un pacifismo ingenuo o ad essere pro o contro gli Usa. “Io non sono stato un obiettore di coscienza – sono un ufficiale degli alpini, di quel battaglione che adesso è in Afghanistan – e non sono antiamericano, tutt’altro. Però credo di usare tutto il raziocinio e la capacità politica per valutare la presente situazione. La diplomazia vaticana non va lasciata sola in questo sforzo. Chi conosce la guerra, vi si oppone. Non a caso, nell’amministrazione Bush, i generali sono le colombe, gli uomini d’affari i falchi. “Adesso più che mai sta alla politica, così avara in questo momento di ragioni per sé stessa, trovare motivi per la pace. È uno dei paradossi della politica. Che il Signore ci aiuti”.

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