Iran, i perché delle sanzioni

Il Consiglio di sicurezza dell'Onu, nonostante l'accordo raggiunto da Brasile e Turchia, conferma la linea dura verso Teheran. Discutiamo sulle ragioni con Pasquale Ferrara.
consiglio di sicurezza onu

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il quarto pacchetto di sanzioni all’Iran. Unici voti contrari, quelli della Turchia e del Brasile, che il mese scorso avevano raggiunto un accordo perché Teheran arricchisse il proprio uranio al di fuori dei confini nazionali. Il loro lavoro diplomatico è stato dunque ignorato? Ne parliamo con Pasquale Ferrara, capo dell’unità di analisi del ministero degli Esteri.

 

 

Come mai questa decisione del Consiglio di sicurezza, che sembra non tener conto dell’accordo raggiunto in precedenza?

 

«In realtà l’accordo concluso con Brasile e Turchia è ancora di carattere potenziale, e giunge in forte ritardo rispetto alle richieste del Consiglio di Sicurezza e dell’Aiea alle quali Teheran avrebbe dovuto adempiere. La questione è quindi in sospeso, e questa incertezza si è intrecciata con la procedura già iniziata in Consiglio di sicurezza. Non bisogna però enfatizzare oltre misura questa risoluzione, perché rimane comunque aperto il cosiddetto “doppio binario”: se da una parte ci sono le sanzioni, motivate dal mancato rispetto di precedenti risoluzioni e dalla scarsa collaborazione con l’Aiea, dall’altra la strada del negoziato è ancora percorribile. A segnare una vera svolta sarebbe un atteggiamento più costruttivo e trasparente da parte dell’Iran, che pur aderendo al Trattato di non proliferazione, non ha mai ratificato le clausole sulle ispezioni più pervasive. Nessuno nega la possibilità di mantenere il nucleare a scopi civili, che è anzi definito “diritto inalienabile” dallo stesso Trattato».

 

 

Da diverse parti si sono sollevati dubbi sulla reale efficacia di queste sanzioni, sia dal punto di vista economico che militare. Qual è dunque il loro significato?

 

«Il tema delle sanzioni è molto vasto, e coinvolge la dimensione strategica, economica e diplomatica. Il significato rimane però essenzialmente politico, e consiste nel dare il segnale che uno Stato non è in sintonia con il resto della comunità internazionale. La loro reale efficacia dipende anche da chi le applica, perché, pur avendo portata globale, le risoluzioni Onu non sono di fatto adottate da tutti».

 

 

Altro avvenimento significativo sullo scenario internazionale è stata l’esortazione di Obama ad Israele ad attenuare la pressione su Gaza, e l’annuncio di 400 milioni di dollari di aiuti per la Striscia. Uno schiaffo a Israele, controbilanciato dal sostegno alle sanzioni all’Iran?

 

«Non bisogna confondere le due questioni: il blocco di Gaza, nelle modalità attuali, è ormai giudicato insostenibile da tutta la comunità internazionale. L’Unione europea, nel dicembre 2009, aveva approvato un documento in cui lo definiva addirittura politicamente controproducente, perché da questa situazione traggono vantaggio gli estremisti: non dimentichiamo che più di metà della popolazione della Striscia ha meno di 18 anni. La tragedia della Freedom flotilla ha portato ad un cambio di registro anche all’interno di Israele: diversi settori dell’opinione pubblica sostengono la necessità di trovare altri modi per bloccare l’ingresso delle armi a Gaza. L’ultima dichiarazione di Obama conferma l’atteggiamento critico dell’Amministrazione americana non solo verso il blocco, ma anche verso la questione degli insediamenti in Cisgiordania e la situazione di Gerusalemme est. Finora si era sempre sostenuta la necessità di lasciare ad israeliani e palestinesi la negoziazione di un accordo finale, ma i fatti provano che serve un accompagnamento internazionale. Il cosiddetto “quartetto”, ossia Unione europea, Stati Uniti, Russia e Onu, si era formato proprio a questo scopo, ma è al momento inattivo. L’Unione europea ha le idee chiare in questo senso, però manca della coesione politica necessaria, della volontà univoca di tradurle in pratica e degli strumenti per farlo».

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