Invito a Peres e Abbas di pregare in Vaticano

La proposta non prevista ma appassionatamente attesa risuona al termine della messa all’esterno della Basilica della Natività. Francesco attende Peres e Abbas a Roma per la pace. Visita dedicata alla Palestina, nel cuore della sofferenza di un popolo. Dal nostro inviato
papa

Il grido di esultanza che parte dal settore dei sacerdoti, in grado di capire l’italiano, esplode appena il papa, al termine della recita del Regina Coeli, lancia con voce sommessa la novità che tutti bramavano.  «Invito il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il presidente israeliano Shimon Peres ad elevare insieme con me un’intensa preghiera, invocando da Dio il dono della pace». E precisa, con concretezza, il luogo: «Offro la mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro di preghiera». La folla palestinese, assiepata nella Piazza della Mangiatoia per partecipare alla messa papale, libera un applauso vigoroso, appena capita la proposta.

La portata dell’invito apre alla speranza e si riassapora il gusto di una possibile prospettiva di cambiamento.  «È una bomba questa proposta. Ci ha sorpreso e ci entusiama – ci dice a caldo Tony Karram, medico chirurgo di Haifa, 150 chilometri a nord di Betlemme –, perché il papa ha una autorevolezza mondiale che potrà avere successo dove tanti altri, Obama compreso, hanno fallito».

«Una sorpresa per tutti noi», dichiara mons. William Shomali, vicario per la Palestina del patriarca cattolico latino, grande tessitore di rapporti. Ci racconta che non erano andati a buon fine, nella fase di preparazione di questa visita, i tentativi di arrivare ad una preghiera comune tanto a Betlemme che a Gerusalemme. Shomali è un pastore esperto ed evita facili entusiasmi, ma spiega che il suo ottimismo poggia sulla capacità di papa Francesco di affrontare i problemi da una diversa prospettiva. E chiarisce: «Il problema è fondamentalmente psicologico tra israeliani e palestinesi e quindi non si procede nelle trattative se non si distrugge il muro psicologico». Chiude convinto: «Papa Francesco può arrivare a questo. Lui può farcela. Solo lui può radunare assieme i nemici e farli dialogare perché è al di sopra della politica».

 Anche Tana Imseeh ha gli occhi che brillano. Viene da Ramallah e lavora al ministero del Welfare: «Abbiamo vissuto una mattinata di testimonianza di una Chiesa viva, ricca dei diversi riti e impegnata a camminare sempre più unita. Ma abbiamo ascoltato anche un annuncio storico che, sono sicura, porterà frutti di pace».

A Betlemme il papa era arrivato in elicottero direttamente dalla Giordania poco prima delle 9,00 e ha sfoderato subito la sua abituale franchezza, ad incomiciare dai rapporti protocollari con le autorità palestinesi, alle quali ha rivolto l’auspicio che «le spade si trasformino in aratri e questa terra possa tornare a fiorire nella prosperità e nella concordia». Con forza ha sostenuto che «è ora di porre fine a questa situazione di conflitto sempre più inaccettabile», indicando che «è giunto il momento per tutti di avere il coraggio della pace». La proposta vaticana è nota e Bergoglio l’ha ribadita: «La pace poggia sul riconoscimento da parte di tutti del diritto dei due Stati ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionali riconosciuti».  L’augurio finale è di «intraprendere un felice esodo di pace».

Lasciato il Palazzo presidenziale per dirigersi verso la Piazza della Mangiatoia, il percorso prevede il passaggio vicino al muro di divisione tra Betlemme e Israele. Il papa ha chiesto di fermare la jeep, da cui è subito sceso per avvicinarsi al muro, vi ha sostato davanti raccogliendosi in preghiera per qualche minuto. Poi è avanzato sino a poggiarvi la fronte, a condividere fisicamente la sofferenza di un popolo. La sosta non era prevista dal programma, ma non è irrituale in papa Francesco, che qui è mosso da una consapevolezza confessata: «È difficile costruire la pace, ma vivere senza pace è un tormento».

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