Intervista a Luigino Bruni

Insegna economia politica all’università Lumsa di Roma, dopo 13 anni alla Bicocca di Milano. E ogni settimana commenta i libri biblici su “Avvenire”. Personalità sfaccettata, è membro fin da giovane del Movimento dei Focolari ed è il coordinatore del progetto per una Economia di Comunione

Chi è Luigino Bruni? Sono essenzialmente un economista, con una vocazione umanista. Mi sono sempre occupato, infatti, anche di storia, etica, filosofia. E in economia mi interessano soprattutto le idee, che sono però intrecciate con tutto il resto, come nella vita. Per questo da qualche tempo mi occupo anche di temi come felicità, dono, idealità, passioni, carismi e organizzazioni a movente ideale. Ogni tanto nella vita bisogna essere capaci di ricominciare. Ho appena pubblicato un libretto intitolato La felicità è troppo poco (Pacini Editore): questo vale anche per l’economia. Non si può pensare che la scienza economica sia sufficiente da sola per capire il mondo. La vita è bella perché esistono le soprese. Anche nel lavoro.

La felicità non basta? Vivendo si capisce che ci sono cose importanti almeno quanto la felicità, come la dignità e la verità su di sé. Oggi la felicità, intesa come piacere, è diventata la priorità, e quindi… siamo infelici. Gli esseri umani vogliono di più: dignità, libertà, fedeltà, verità.

Lei afferma che un’antropologia pessimistica è alla base del capitalismo. Quale futuro per l’economia? Nel ’900 avevamo due modelli di economia: quello anglosassone, basato sull’antropologia agostiniana, luterana e  calvinista, dove l’essere umano è visto essenzialmente orientato al proprio interesse personale, e il bene comune arriva come effetto  non   intenzionale (si pensi alla “mano invisibile” di Smith). Il secondo modello, invece, era il capitalismo di Italia, Francia, Spagna, Portogallo, cattolico e più comunitario, il quale proponeva un’antropologia più positiva, basata sulle virtù e sull’uomo sociale. Portava meno crescita, ma una maggior gioia di vivere, mentre al Nord si accumulava ricchezza e si sviluppava il capitalismo. Ora, con la globalizzazione, anche nel Sud Europa è stato importato questo stile di capitalismo più individualista e solitario, che sta intristendo il modo di concepire il lavoro e la società stessa. Nel mondo ha vinto il capitalismo nordamericano e il Sud Europa soffre.

Quindi? Bisogna intanto esserne coscienti, parlarne, perché ogni Paese ha la sua vocazione all’economia, un genius loci. Con le nostre poche risorse, stiamo cercando di sviluppare la Scuola di economia civile (Sec) e diversi laboratori culturali in tutto il mondo, soprattutto con giovani, ma non bisogna illuderci che il futuro sia luminoso.

Lei è stato uno dei fondatori dell’EdC. È soddisfatto dell’impatto che ha avuto in questi 25 anni? L’EdC l’ha fondata Chiara Lubich, io avevo 25 anni. L’idea che avevo allora, cioè che avremmo cambiato in poco tempo l’economia mondiale (insieme ad altri), non si è realizzata. Però era la molla che serviva per partire per un grande viaggio. Oggi il movimento di EdC cammina insieme a quello dell’Economia sociale e dell’Economia civile, iniziative meno legate al Movimento dei Focolari, anche se ne condividono molte idee e categorie culturali. 25 anni fa quelle dell’EdC sembravano proposte bizzarre o ingenue. Oggi ne parlano molti, non solo nella Chiesa cattolica. È un processo che va avanti sotto traccia. Certo, potevamo  incidere di più nel mondo della cultura, fare più dialogo, più rete, più alleanze.

E nel futuro? Ci sono zone del mondo, come Brasile, alcuni Paesi dell’Africa, Argentina, Balcani, Portogallo, Filippine, dove l’EdC ha una vita intensa e vivace, grazie a una nuova generazione di giovani che hanno preso in mano il movimento. In Italia, invece, non siamo ancora riusciti a fare il necessario ricambio generazionale, anche se la nascita dell’Aipec ha dato un forte impulso. E luglio è il mese della prima “Costituente Edc giovani” a Loppiano.

Dal punto di vista culturale? In questi anni abbiamo fatto ricerca insieme a Zamagni, Becchetti, Gui, Smerilli, Pelligra, Argiolas e molti altri, in vari Paesi del mondo: non credo che in Italia ci sia un gruppo di economisti coeso e impegnato come questo. Abbiamo lanciato temi come felicità, reciprocità, beni relazionali. In futuro dovremo cercare una maggiore mediazione  con  categorie  come i sindacati, Confindustria, gli imprenditori. Ma soprattutto dobbiamo rilanciare la dimensione profetica. L’EdC non è solo economia civile, è fortemente legata all’esperienza spirituale della fondazione che le ha dato Chiara. Questo vuol dire non dimenticare i poveri, stare di più nelle periferie, nelle fratture, in quei luoghi dove la vita e l’economia rinascono ogni giorno.

Lei si sente profeta? Dipende da cosa intendiamo con questa parola. Siccome ho incontrato un carisma, e ho ricevuto da giovane una vocazione, in un certo senso condivido la missione profetica, perché i carismi sono la continuazione dei profeti oggi. Per capire un carisma come quello di Chiara Lubich o di don Giussani, non bisogna pensare tanto ai santi, quanto ad Isaia, Geremia ed Ezechiele. La dimensione profetica attraversa tutta l’umanità, ed è fondamentalmente laica.

Ma cosa fa il profeta? Ha uno sguardo diverso sul mondo, è abitato da una luce che gli consente di vedere cose che gli altri non vedono, sempre dalla prospettiva dei poveri e degli oppressi. Quindi è critico verso i potenti. Infatti, se non è falso profeta, fa sempre una brutta fine: Isaia squartato, Giovanni Battista decapitato. Siccome mette in difficoltà i potenti, non è ascoltato, è un emarginato. L’altra cosa tipica dei profeti è la lotta contro l’idolatra. Gli uomini sono naturali portatori di idoli, il primo è l’io, il secondo è il dio fatto a immagine dell’uomo, l’opposto del Dio biblico. Il profeta svuota il mondo dagli idoli, lo libera dalle ideologie, dicendo: questo non è Dio. Poi ti dice: forse, se vuoi, c’è una voce nel mondo che parla. I profeti sono preziosi, non solo quelli biblici, ma anche tanti contemporanei. Il mondo è pieno di profezia e di profeti, ma non li riconosciamo, pensiamo che siano gente strampalata o fissata.

Citiamo qualche frase dal suo libro “Elogio ndell’autosovversione” (Città Nuova): «La motivazione più grande non è il profitto ma la fraternità». Sì, la fraternità e, in genere, le nostre grandi passioni. Le persone non lavorano mosse solo dal guadagno, ma anche per essere stimate e riconosciute, dagli altri e da  sé stessi. L’idea che per soddisfare l’essere umano basti promettergli qualcosa non funziona, siamo fatti per l’infinito. Ci sono studi che dimostrano che anche chi pensa al guadagno, interpreta spesso i soldi come un indicatore di stima e di successo. Nel passato la gente era stimata con molti linguaggi, mentre oggi l’unico modo è dare soldi; ma noi valiamo più del denaro. Anche l’imprenditore, quando inizia, ha sempre la passione per il suo lavoro: creare un’azienda, portare i profitti, confrontarsi con la gente che lavora con te. È bellissima la capacità degli uomini di compiere azioni collettive. L’imprenditore nasce così, poi però a volte diventa speculatore, si intristisce, dimentica la passione che l’ha fatto nascere. Dobbiamo partire da una visione positiva del mondo e dell’economia, e da lì guardare e correggerne i limiti.

«I nostri figli possono diventare migliori di noi, solo se doniamo loro la libertà di poter diventare peggiori di noi e tradire i nostri sogni». Quando i genitori, per preoccupa- zione, non mettono i figli in condi- zione di “tradirli”, li bloccano, non li fanno fiorire, li fanno diventare degli imbranati. La stessa cosa vale per tutti i rapporti umani, anche per l’economia e i carismi. Nei movimenti c’è sempre il timore che la gente possa “tradire” l’ideale genuino: ma questo crea persone poco fiorite, piccole, poco interessanti, perché non sono libere di crescere diversamente da come dovrebbero, e quindi contraddire le aspettative. A volte abbiamo una visione moralistica dei carismi, che blocca le persone dentro un’etica del “dover essere” che uccide il “poter diventare” qualcosa di imprevisto e sorprendente.

Le associazioni (religiose e non solo) impediscono la maturazione delle persone? Non necessariamente. Ma è vero che, quando un giovane sente una vocazione, è disposto a tutto, non pensa in genere al suo futuro, al suo lavoro, alla sua vita. Sono i suoi responsabili che devono pensare a queste cose: non devono consentirgli di arrivare a 50 anni svuotato, quando ha consumato le risorse morali della sua gioventù e si esaurisce. Non è semplice mettere insieme lo sviluppo umano e professionale di una persona con la dimensione religiosa. Il rischio è che gli appartenenti ai movimenti carismatici non superino mai l’adolescenza spirituale. Ci deve essere la crescita umana accanto a quella religiosa.

«La crisi dei carismi è mancanza di storie capaci di farci muovere dentro e insieme». Le comunità e i movimenti nascono con delle storie che convertono migliaia di persone. Ma poi ad un certo punto cominciano a vivere del passato, si bloccano, ad esempio perché muore il fondatore, e non sono più capaci di aggiungere nuove storie alle vecchie. Si raccontano sempre e solo quelle dei primi tempi, e si vive di rendita. L’errore è pensare che l’unica fonte di innovazione sia il fondatore; invece ogni persona che arriva in una comunità carismatica riceve lo stesso carisma del fondatore, lo ha dentro da sempre. Quindi va incoraggiata alla libertà creativa. Un movimento rimane vivo se le persone sanno ripetere i miracoli dei primi tempi, nuovi fatti e nuove parole.

Quale futuro per Luigino Bruni? La mia grande passione di sempre è il carisma dell’unità. Quello che ho capito vivendo, però, è che nessuna persona può essere contenuta da una sola realtà, perché c’è una dimensione di infinito dentro ognuno di noi. Oggi vorrei essere 100% focolarino, ma allo stesso tempo 100% cittadino, 100% appassionato dei carismi degli altri, 100% economista, 100% pacifista, 100% docente, 100% impegnato contro le povertà e l’azzardo. Uno dei rischi dei grandi carismi, infatti, è far diventare le persone esseri ad una sola dimensione, e quindi spegnerle. Dovremmo invece riuscire a far crescere persone a più dimensioni, a farle fiorire veramente.

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