Intervista a Giacomo Campiotti

Laureato in pedagogia, varesino, il regista ha girato film importanti quali “Come due coccodrilli” e “Il tempo dell’amore”. Nel 2014 ha dato avvio alle miniserie tv “Braccialetti rossi”, che lo hanno imposto come sensibile e profondo esperto d’umanità.

Laureato in pedagogia, varesino, il regista ha girato film importanti quali “Come due coccodrilli” e “Il tempo dell’amore”. Nel 2014 ha dato avvio alle miniserie tv “Braccialetti rossi”, che lo hanno imposto come sensibile e profondo esperto d’umanità.

Lei è un regista che da sempre ha dimostrato un feeling speciale per le giovani generazioni. Da cosa nasce questo interesse? Mi piace molto l’adolescenza, il periodo di trasformazione, di apertura al mondo. A quell’età sono uscito dalla famiglia. Scappavo di casa, iniziavo a viaggiare, ad avere grandi amicizie, a fare gruppo. Moltissima della mia creatività è nata in quel periodo fondamentale. E poi c’era il rapporto con la natura, con la montagna, la fatica, il lavoro. Ho sempre lavorato, dall’età di 15 anni facendo molti lavori diversi. Mi sembra perciò che parlare dell’adolescenza sia una bella chiave di ingresso nella persona umana, perché sono gli anni dei cambiamenti, delle scelte che ti segnano. Da bambino ero convinto che gli adulti sapessero tutto. Avevo una fiducia enorme nei miei genitori, ma poi crescendo mi sono reso conto che non è tutto come ti dicono, devi tu farti un’idea più profonda, più sincera, esperienziale, del mondo. Per cui io parlo ora ai giovani per portare una serie di valori non perché sono giusti, ma perché sono belli, perché fanno stare bene.

Che cosa c’è dietro la serie televisiva Braccialetti rossi? Se fosse stato un teorema o un saggio  sarebbe  stato  diverso. Invece dietro c’è la vita di una persona, Albert Espinosa. Conoscendola siamo diventati amici. Quando ho letto di lui che parla del cancro che gli ha attaccato un polmone, una gamba, mezzo fegato, e che gli ha dato molto più di quello che gli ha preso, ho pensato: questo è un pazzo o un santerello. Mi ha convinto il fatto che esisteva questa persona reale di cui si potesse raccontare una verità profonda dando voce alla sua esperienza. Valeva la pena parlare di come la vita sia un mi- stero e di come tante volte dietro ai problemi ci siano comunque delle opportunità. Prima di iniziare il film ho cominciato ad andare negli ospedali, ho conosciuto i malati e le loro famiglie, infermieri, dottori, volontari, e ho capito e visto quan- to era importante il modo con cui si possono affrontare le malattie. Mi ha convinto poi il fatto che era un progetto rischioso. E a me piace il rischio. È molto faticoso fare un film per la televisione, specie una miniserie in due puntate, e non pensavo di essere in grado anche fisicamente di fare una serie, mi sembrava noioso. Invece, quando ho visto che la Rai era spaventata del progetto, ho capito che era la strada giusta.

Come avviene sul set il vivere un’esperienza di empatia, di condivisione, con i giovani? Il film è un gioco molto serio in cui lei va fino in fondo, in profondità. Si direbbe un lavoro “trasformante”. Il set è stato speciale. Ha richiesto un grande lavoro di preparazione con i ragazzi, anche di protezione. Chiedevo un grande sforzo, sia psi- cologico che fisico. Prima che regista sono un pedagogo, laureato in pedagogia, e sono padre di 5 figli. Il lavoro di preparazione è iniziato da quando li ho scelti, ma anche prima, cercando di fare in modo che comunque, al di là del risultato, fosse un’esperienza profonda di vita. Lo stesso con quei ragazzi che sono venuti soltanto per i provini e poi non sono stati presi. Anche con loro ho affrontato questo percorso. Formato il cast siamo andati nelle Puglie prima delle riprese per formare il gruppo. Facevamo esercizi e giochi tutti insieme, momenti di condivisione anche di problemi, per creare un team la cui finalizzazione non fosse solo il risultato del lavoro, ma l’esperienza in sé. Questo spirito è stato capito dalla produzione, che mi ha permesso di poter lavorare chiamando anche dei collaboratori esterni per tenere l’energia dei ragazzi sempre alta sul valore di quello che stavano facendo. Insieme siamo andati negli ospedali, e lì hanno visto cose che non immaginavano, cosa potesse essere quel tipo di dolore. Anche questo è stato graduale, accompagnato, e coinvolgendo anche le famiglie. Per esempio, la ragazzina che nel film fa la cieca è stata aiutata sul set da due miei amici ciechi che hanno fatto un corso a lei, e a tutti noi, parlando della loro cecità, facendo dei giochi, facendole sentire gli oggetti. Quello che ha imparato ora è diventato suo patrimonio umano.

Ha potuto verificare nel tempo se il lavoro, l’esperienza fatta sia servita positivamente alla crescita dei giovani attori, o piuttosto negativamente considerando che nell’immaginario il cinema e la televisione sono legati alla fama, alla chimera del successo? Onestamente penso di sì. Come dici tu a quell’età  è  rischioso,  e  la promessa di successo è una tentazione. Sono sempre stato sensibile a questo e sono contento di avere previsto un po’ il pericolo e di averli messi in guardia. So che due dei ragazzi della serie spagnola sono finiti male perché hanno iniziato a fare presenze in discoteche, a parlare nei centri commer- ciali, hanno fatto tanti soldi in poco tempo e poi lo stesso sistema li ha rifiutati. Sono stati mollati completamente dal pubblico e sono caduti, purtroppo, in depressione. La nostra serie invece non è stato tanto un fenomeno di divismo, an- che se i protagonisti hanno avuto bagni di folla. L’aspetto interessante è che si sono identificati nei personaggi, amavano i loro valori. Vivevano con amore profondissimo, e anche forse con nostalgia e voglia di emulazione, le amicizie vere. Si toccavano, si dicevano le cose in faccia, lottavano insieme per qualcosa. I ragazzi erano coscienti di quello che stavano rappresentando, ed io cercavo di far capire che non stavamo solo facendo un film ma stavamo dando voce a persone vere, ad un messaggio fortissimo, che non andava svenduto. Nessuno di loro ha fatto un percorso di svendita. Sono stati contattati con proposte di pubblicità, discoteche e cavolate varie, ma loro, insieme alle famiglie, con grande serenità hanno rifiutato. Lo spettatore ti ama per la tua purezza.

Il suo sembra essere un cinema di formazione. Nel bene e nel male, ha una grande influenza sulle psicologie ancora duttili dei ragazzi. Vissuto da spettatori adolescenti può aiutare allo sviluppo, alla loro crescita? A diventare adulti? Penso assolutamente di sì. Abbiamo montagne di lettere e di messaggi di ragazzi che ci confermano quanto siano stati aiutati. Qualcosa di incredibile, inaspettato, profondo. All’inizio malati, famiglie  di malati, volontari, poi persone diverse, che attraverso Braccialetti rossi hanno sentito un aiuto fortissimo per altre problematiche. Ultimamente ho incontrato una ragazza che mi ha riconosciuto per strada, e mi ha detto che aveva accettato la morte della mamma, avvenuta tre anni prima, solo dopo aver visto Braccialetti rossi. Per dire che è una cosa non diretta, proprio perché trasmette dei valori al di là del film che non è solo sulla malattia, parla anche del coraggio, della forza, della solidarietà, dell’amicizia, ed è recepito da tutti soprattutto a quell’età. Noi società, noi registi, noi attori, spesso non abbiamo assolutamente una coscienza, una consapevolezza di quello che facciamo. Il cinema e la televisione sono mezzi potentissimi, hanno una forza devastante proprio nel bene e nel male. Se già l’adulto che va a vedere un film violento esce infoiato, gasato, pensa cosa succede in un ragazzo. Sono innocui solo per chi ha una psicologia formata e ha i mezzi per fare i distinguo, altrimenti è devastante. E parlo di film anche famosi, a volte molto belli. Noi dobbiamo avere prima di tutto un imperativo morale. Quindi io cerco di dare voce a personaggi positivi, con dei valori da trasmettere.

Visto le tematiche legate alla famiglia che valore dà ad essa? Come vede la condizione oggi della famiglia? E avendo tanti contatti diretti, se lei dovesse dare un consiglio ai genitori cosa direbbe? Devo dire che non  sono  contento di me stesso come genitore. Se dovessi dare dei consigli ripeterei quello che ripeto a me stesso, e cioè che i bambini hanno bisogno di grande ascolto. Spesso non glielo diamo, oppure glielo diamo ma avendo già in testa prima cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa de- vono o no fare, quale è il programma  della  giornata.  Credo   invece che loro ci mandino dei messaggi molto precisi, e che dietro i capric- ci sia sempre un motivo, una ragio- ne che va capita, che va ascoltata prima di tutto. E poi consiglierei di rallentare il ritmo della vita, per- ché quasi tutti siamo dentro il vortice della società, delle cose, delle impellenze, e questi poveri bambini vengono sballottati di qua e di là anche tra gli stessi sport, le stesse attività extrascolastiche. Quello che manca è il tempo e il modo di parlare in famiglia. E poi cercare di preservarli e difenderli da cose che non ci dicono fino in fondo quanto sono pericolosi sia a livello fisico che psicologico, e invece sappiamo che lo sono. Parlo di cellulari, computer, playstation…

Lei ha trattato l’argomento specificatamente religioso, ad esempio col film Maria di Nazareth, una versione asciutta e poco oleografica del Vangelo visto attraverso gli occhi di Maria, o la storia di Bakhita. Tra i temi dei sui lavori c’è quindi anche la ricerca di Dio? Assolutamente sì. Fare film per me è una fatica enorme, proprio a livello psicofisico (nel gradino de- gli stress dopo il pilota di Formula 1, c’è il regista). Lo stress è molto forte anche perché i produttori impongono dei tempi e dei programmi, per gestire la troupe, per costringere gli attori col loro ego a fare quello che dici tu. E dato che un regista non è un poeta, né un pittore, ma uno che lavora con i soldi degli altri, si è poi legati agli ascolti, alla riuscita di un prodotto che a volte va bene e a volte male. Io ho fatto dei film di intrattenimento che ritengo belli, o film che nascevano anche dal mio ego, dal mio esclusivo piacere. Poi ad un certo punto della mia vita, quando mi sono riavvicinato alla spiritualità, per rispondere alle mie domande ho voluto provare a dare voce a persone che hanno lasciato un segno significativo. E, come spettatore, avventurami in loro compagnia.

Quale è la gratificazione più grande finora nella sua attività di regista? Da dicembre abbiamo realizzato con dei genitori di una scuola elementare che non sanno recitare, quindi molto amatoriale, un piccolissimo spettacolo su san Francesco che stiamo ancora portando in giro. E, ti dico la verità: mi ha dato altrettanta soddisfazione di altri grandi film che ho realizzato. C’è sempre la grande tentazione del successo, una trappola; ma cerco, mi alleno, a non lasciarmi condizionare e di essere contento principalmente di quello che faccio.

   

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