Interiorità, preghiera e santità

Excursus storico-teologico sulla “interiorità”. Scoprire nuove dimensioni alla luce della spiritualità di comunione.
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Nei nostri riferimenti autobiografici cominciamo col dire che siamo nati il giorno tale dell’anno tale e nella tale località. Ed è vero, dal punto di vista delle osservazioni esterne: quel giorno, a quell’ora ed in quel dato posto è nato un nuovo essere umano. Il bosco si è arricchito di un nuovo albero che, messe le sue radici, ha cominciato a crescere e a svilupparsi fino all’età che ha ora, magari trapiantato da un vivaio ad una selva e da una selva all’altra. Vent’anni, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta, ottanta per i più robusti, come dice il salmo, che ormai sono – per i più robusti, appunto – anche novanta e cento. Anni ed opere, malattie e successi, tutti facilmente recensibili.

 

Questo dal punto di vista dell’anagrafe pubblica, ma dal punto di vista del mistero della vita che ha sorpreso perfino i nostri genitori, dovremmo dire che è Dio ad essere nato in noi o con noi. Il “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Gen 1, 26) ed il “soffio divino” (cf. Gen 2, 7) con cui la creatura umana venne alla luce, molto diverso dalla vita vegetale o anche semplicemente animale, sono là a dichiararlo. Sebbene la maggior parte degli uomini sembra non essersene accorta, e continui a non accorgersene, è un fatto oggettivo e, come la figura del “buon” ladro testimonia, può bastare un solo istante per prenderne coscienza ed accettare la comunione con Dio.

 

Presa di coscienza soggettiva della presenza oggettiva che non dipende da noi, ma c’è, prima di venir scoperta e che tanto sorprese Agostino che – dopo aver cercato Dio fuori – scoprì che era dentro di lui. Più intimo (“interiore”) a lui di quanto lo potesse essere Agostino a se stesso. Anche se l’immagine potrebbe farlo pensare, neppure il “castello” di Teresa d’Avila prevede un assalto dall’esterno, ma un cammino di interiorizzazione verso la stanza più segreta dove avvengono cose che solo Dio e l’anima possono capire. La “interior bodega” di san Giovanni della Croce o, meglio ancora, dato che i mistici non possono dire di più di quanto è stato già detto nel Vangelo, il vano più remoto della casa dove andare a pregare, quando realmente s’intende parlare col Padre e non semplicemente esibire devozione.

 

L’interiorità come “ricerca” e “raccoglimento”

 

Il concetto di “interiorità” è uno dei più familiari e, secondo un dizionario della lingua italiana (De Mauro), questa parola indica la parte interiore di qualcosa, l’essere interiore e, allo stesso tempo, il complesso di pensieri, sentimenti e interessi che costituiscono la vita spirituale di un individuo. Può indicare, infine, la ricchezza psicologica, o l’intima profondità che un artista, per esempio, manifesta nelle sue opere. C’è, infatti, chi esprimeuna forte interiorità,così come ci sono persone superficiali che potrebbero essere dette prive di interiorità.

 

Dal punto di vista dei presupposti antropologici, tra l’introverso e l’estroverso, nell’opinione di Jung, sarebbe il primo ad essere più predisposto all’interiorità, mentre, tra il carattere primario (facilmente distaccato dal proprio passato) e secondario (sensibile ad ogni emozione che lo condiziona in maniera durevole), sarebbe quest’ultimo, secondo Heymans, il più favorevolmente predisposto ad essa.

Massignon ha perfino parlato di condizionamenti linguistici, sulla via dell’interiorità, arrivando alla conclusione che le lingue indoeuropee sarebbero fatte per esprimere concetti esteriori ed operativi, mentre quelle semitiche articolate su radici trilittere, prevedendo, in forza di loro trasformazioni, la possibilità di mutare decisamente di significato, sarebbero naturalmente disposte alla passività ed all’ascolto. Dipenderà da questo che il massimo della fede di Israele si esprime nello Shemah?

 

L’ambiente e la cultura influiscono sicuramente nel favorire o meno la vita interiore. Così, almeno nel mondo postindustriale, la mancanza di interiorità sembra essere dovuta al venir meno degli spazi di silenzio, ma la vita interiore è fondamentalmente determinata dalla “ricerca” di senso e, sia in circostanze favorevoli che sfavorevoli, dal necessario “raccoglimento”. Lo specifico della ricerca cristiana in rapporto, per esempio, al buddismo è che in quest’ultimo il raccoglimento è il fine, mentre per il cristianesimo è il mezzo o lo spazio in vista dell’incontro personale con un Dio personale.

La ricerca e il raccoglimento implica allontanamento dal mondo e distacco dal corpo. Allontanamento dal mondo, non come fuga dalla natura, ma dalla “mondanità” o dallo stile di vita mondano (cf. Imitazione di Cristo I, 20, 4.8.23). Distacco dal corpo, in quanto rinuncia ai piaceri sensibili, alla libera immaginazione e ai pensieri grossolani. Il tutto, in un sano equilibrio che consiste nel far sì che il corpo non si opponga alla vita interiore e nel lasciarlo fiorire in ciò che corrisponde alla dignità e alla serenità della vita spirituale.

 

Per facilitare la preghiera, per esempio, Ignazio di Loyola suggerisce la posizione più favorevole al raccoglimento e perfino al ritmo della respirazione. Anche se, nella preghiera, si deve rinunciare al ragionamento (al cosiddetto “pensiero discorsivo”), poiché l’ideale del raccoglimento cristiano non è tanto il riuscire a dire cose a Dio, quanto il farsi sempre più attenti e sensibili alla sua presenza. Nella preghiera, infatti, secondo Bérulle, bisogna guardare a Dio, non a se stessi, e la preghiera, secondo santa Teresa, non è altro che uno “stare” spesso in compagnia di Colui dal quale sappiamo di essere amati.

 

Metodi ed esperienza

 

Oggi si guarda con sospetto a tutto ciò che sa di “ricetta” e nella vita spirituale ancor più giustamente che in altri campi, dato che le “metodologie” potrebbero pretendere, magari senza volerlo, il posto e l’iniziativa dello stesso Spirito Santo, dell’unico che può venire incontro alla nostra incolpevole incapacità di pregare. Il pericolo è quello di confondere la preghiera – un rapporto personale con Dio – con la strategia per raccogliersi, anche se le metodologie, soprattutto agli inizi, possono avere il loro valore. A patto, naturalmente, che si sappia che si tratta sempre di attività previe alla preghiera. L’amore, infatti, si fa con l’amore, si potrebbe dire.

 

Come nell’insegnamento delle lingue, oggi finalmente, invece di tutte le regole con cui si riempivano anni e anni di studio senza condurre lo studente a poter dire due frasi corrette al momento del bisogno, si preferisce la full immersion ed il colloquio fin dal primo giorno, così nella preghiera. Essa s’impara praticandola, nell’abbandono all’ascolto del mistero divino che sembra lontano e che, invece, è nel nostro intimo come in “cielo”, dato che il cielo, è ancora santa Teresa a dirlo, è dove Dio è.

 

E nel nostro mondo super agitato, dove la calma non c’è più neppure nei monasteri e le stesse celebrazioni liturgiche sembrano aver abolito il silenzio? Non bisogna rassegnarsi, ma fare di necessità virtù e prendere sul serio il fatto che, così come il Figlio di Dio è venuto nei nostri spazi e si è assiso alla mensa dei peccatori, così il cristiano deve saperlo trovare nelle maglie della sua giornata (devotio “modernissima”!) e in ogni stato di vita, come insegnava già san François de Sales e ha ribadito Teresa di Lisieux. Chiara Lubich ha parlato addirittura di un “castello esteriore”, complementare a quello “interiore” di Teresa d’Avila.

 

In favore dell’interiorità gioca, dunque, l’allenamento a saper coltivare il giardino segreto dell’anima e lo spirito di preghiera in ogni circostanza, anche se – per parlare col Padre – è sempre necessario chiudere la porta della propria stanza segreta.

Nella spiritualità cristiana, comunque, il “vuoto”, così come il “nulla” e la “notte”, sono “in funzione” del pieno, del Tutto e del giorno. Un mistico cristiano come Giovanni della Croce non cerca l’annichilamento, ma la demolizione delle barriere, fino all’ultima, per l’incontro con l’amato Signore. La ricerca è per raggiungere Dio e, necessariamente, quanto più si raggiunge Dio, tanto più ci si apre al mondo degli uomini.

 

L’interiore è Dio, e sant’Agostino (Confessioni I, 2, 1-2), al termine della sua ricerca, capisce che non esisterebbe se non fosse in Dio, anzi, che non esisterebbe se Dio non fosse in lui: “Non essem, Deus meus, nisi esses in me. An potius non essem, nisi essem in te” (Io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me. O meglio, non sarei, se io non fossi in te).

 

“Misura alta” della vita cristiana

 

Sebbene non tutti possano arrivare alla sublimità di certe esperienze privilegiate ed esemplari, quella dell’interiorità non è un’esperienza di tipo aristocratico o di élite. Già Francesco di Sales, come abbiamo appena ricordato, non poneva confini alla vita spirituale, al suo tempo detta “devota”. L’ultimo Concilio, d’altra parte, insegna che la vocazione alla santità è per tutti e, nella Novo millennio ineunte, soprattutto ai numeri 30 e 31, Giovanni Paolo II ha dichiarato che questa deve essere la motivazione della nuova pastorale.

 

Non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità”, vi affermava riferendosi all’anno santo del 2000 appena celebrato. “Non era forse questo il senso ultimo dell’indulgenza giubilare, quale grazia speciale offerta da Cristo perché la vita di ciascun battezzato potesse purificarsi e rinnovarsi profondamente?”. “Mi auguro – continuava – che, tra coloro che hanno partecipato al Giubileo, siano stati tanti a godere di tale grazia, con piena coscienza del suo carattere esigente. Finito il Giubileo, ricomincia il cammino ordinario, ma additare la santità resta più che mai un’urgenza della pastorale”.

 

E invitava a riscoprire tutto il valore programmatico del capitolo quinto della Lumen gentium, sulla vocazione universale alla santità: “Se i Padri conciliari diedero a questa tematica tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco spirituale all’ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica intrinseca e qualificante. La riscoperta della Chiesa come mistero, ossia come popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito, non poteva non comportare anche la riscoperta della sua santità, intesa nel senso fondamentale dell’appartenenza a Colui che è per antonomasia il Santo, il tre volte Santo (cf. Is6, 3). Professare la Chiesa come santa significa additare il suo volto di Sposa di Cristo, per la quale egli si è donato, proprio al fine di santificarla (cf. Ef5, 25-26). Questo dono di santità, per così dire, oggettiva, è offerto a ciascun battezzato”.

 

È ora – sembra quasi gridare più avanti – di riproporre a tutti con convinzione questa misura alta della vita cristiana ordinaria”, anche se i percorsi “sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone”.

 

L’interiorità è per l’incontro

 

L’interiorità è finalizzata all’incontro o alla preghiera che è l’atto più sublime che possa essere compiuto. “Quando un uomo prega compie l’atto più alto per il quale è venuto al mondo, perché il suo pensiero si unisce al Logos”, ha scritto V. Mancuso nel suo libro L’anima ed il suo destino. “Forse, tutto il senso della religione consiste nel rendere gli uomini capaci di pregare”. L’interiorità è un atteggiamento “mariano”, dato che Maria santissima è detta beata, proprio perché nel suo intimo ha creduto ed ha continuato a credere, a vivere interiormente la fatica della fede, come ha avuto coraggio di dire, alla scuola di Teresa di Lisieux, anche il magistero recente.

 

Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi”, scrive nel Diario con profondo sentimento “mistico” E. Hillesum, al termine della sua celebre preghiera della Domenica. “Avere orazione”, ribadisce santa Teresa d’Avila, vuol dire stare spesso in compagnia di Colui che ci ama. “Ich glaube, weil ich bete” (credo perché prego), rispose a sorpresa K. Rahner a chi gli obiettava che certe verità di fede non erano razionalmente compatibili.

Interiorità e fede, infatti, per un cristiano, coincidono e si coltivano andando a ravvivare, nel segreto del cuore, l’amore che Dio ha manifestato nel dono del Figlio per il bene di tutta l’umanità e nel voler ripartire con Lui per amare meglio i fratelli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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