Insieme da 50 anni

In Algeria musulmani e cristiani portano avanti un’esperienza di valori condivisi. Rapporti che si concretizzano in azioni per il bene comune

Cosa fa stare insieme persone di religione musulmana e cristiana, provenienti da Giordania, Siria, Libano, Grecia, Tunisia, Francia, Italia, Svizzera, Burkina Faso, Canada e Algeria? Un dialogo che va avanti da 50 anni e che nel frattempo è divenuto la testimonianza reale di una condivisione efficace. È avvenuto di recente e Tlemcen, in Algeria, dove si è svolto il II Congresso internazionale dei musulmani del Movimento dei Focolari.

Non un convegno, ma un’esperienza vitale, a 50 anni dall’arrivo dell’ideale dell’unità di Chiara Lubich in questo lembo di terra mediterranea. Per un “compleanno” che si rispetti, gli invitati sono anche quelli che hanno vissuto qui nei primi anni in cui tutto prendeva forma. Fra questi, Rosi Bertolassi, bresciana di origine, invitata ad offrire la sua testimonianza. «Il mio arrivo in Algeria è avvenuto il 1° novembre 1970 – ci racconta – ed ho vissuto lì per 13 anni, fino al dicembre 1983.

Nel Movimento dei Focolari in quegli anni iniziavano i contatti con persone delle diverse religioni. Non si può nascondere che ciò non fosse sempre facile, a volte sembrava un miraggio. Noi, giovani donne e uomini, cercavamo di tessere dei rapporti di amicizia, ma incontravamo anche persone che esprimevano delusioni o preconcetti sulla possibilità di un dialogo reale».

 

Donne e uomini che volevano inserirsi in un mondo musulmano, 50 anni fa. Non deve essere stato semplice…

Eravamo incoraggiate dalle esperienze della vita quotidiana. Basti pensare all’arrivo a Tlemcen, nell’ovest algerino, dei primi focolarini, fra i quali Ulisse Caglioni, diventato sacerdote e morto nel 2003, ricordato da tutti per la sua laboriosità e bontà contagiosa. I giovani del vicinato, musulmani, si sono subito sentiti attratti dalla schiettezza di quei cristiani arrivati semplicemente per vivere in mezzo a loro. 50 anni dopo, molti di loro, divenuti padri di famiglia e professionisti, sono i promotori dell’ideale di unità fra cristiani e musulmani. Ad Algeri, dove ero io, in quegli anni un’amica libanese insegnante di arabo costruiva rapporti con i genitori dei suoi alunni.

Una giovane francese, invece, impegnata con le persone portatrici di handicap, si faceva apprezzare per la generosità e l’entusiasmo. Una infermiera proveniente dalla Svizzera suscitava l’interesse di una collega meravigliata nel vedere una ragazza così preparata professionalmente lasciare il suo Paese per lavorare in un ospedale di Algeri, aveva capito che non era guidata da interessi economici ma da un ideale di vita. Un giorno a bruciapelo le disse: «Voi dovete essere delle vere cristiane perché siete felici e vi volete bene». In effetti il nostro rapporto era fraterno, vivo e sereno. Eravamo convinte che l’unità vissuta fra di noi avrebbe favorito l’unità intorno a noi.

 

Come avete fatto ad intessere rapporti con la popolazione locale?

Ricordo le visite ad alcune famiglie algerine. Le conversazioni sedute davanti alle tazze da tè alla menta fumante. L’anziano che raccontava il suo pellegrinaggio alla Mecca e le donne che servivano i dolci imbevuti di miele. «E voi?», ci chiedevano qualche volta. Sapevano che eravamo persone che vivevano per Dio e per questo il discorso si faceva profondo. Scoprivamo di avere in comune la visione religiosa del mondo e di poter condividere i valori di pace e fratellanza.

 

Naturalmente siete entrati in contatto con la Chiesa del posto…

Per noi era necessario conoscere bene il Paese che ci ospitava, per amarlo nei suoi sforzi per lo sviluppo, nelle sue speranze, nei suoi obiettivi. Questa opportunità ci è stata offerta nel contesto della Chiesa cattolica presente ad Algeri con le sue persone più rappresentative: il card. Lèon Etienne Duval, i sacerdoti Henry Teissier, Pierre Claverie e Alphonse Georger (poi divenuti vescovi), gli altri sacerdoti, i religiosi, le religiose, che avevano fatto la scelta di restare in Algeria dopo l’indipendenza.

Abbiamo perciò iniziato camminando insieme alla piccola comunità cristiana del posto, frequentata da un buon numero di cooperanti francesi, italiani, spagnoli, diversi lavoratori dell’Est europeo che venivano per la ricostruzione del tessuto industriale ed economico dell’Algeria indipendente. Fra i religiosi che ci hanno aiutato, come dimenticare un “padre bianco” che ci ha accompagnate presso alcune famiglie dei paesi di montagna della Kabilia? Lo chiamavano grand père, “nonno”, era parroco a Tizi Ouzou, il suo nome era Alain Dieulangard. Fa parte dei religiosi morti negli anni ’90, assassinato come i monaci di Tibhirine. Più volte eravamo andate a visitarli imparando da loro il dialogo della preghiera e del servizio gratuito.

Negli anni questo gruppetto si è ingrandito, si è aggiunta qualche famiglia proveniente dall’Europa, è nata una vera e propria comunità composta in gran parte da musulmani, sono sorte iniziative e si sono sviluppati progetti; numerosi i giovani coinvolti. Un’esperienza singolare che molti definiscono una profezia in atto.

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