India, la discriminazione per l’hindu rashtra

Concludiamo con questo articolo – il terzo della serie – la presentazione sulla complessità delle elezioni politiche in corso in India. Nei due articoli precedenti si sono esaminati gli aspetti politici e quelli sociali, con un riferimento alla questione castale e al suo ruolo nei processi elettorali
Celebrazioni del Maha Shivratri in onore del dio Shiva, a Bagalore, India, 8 marzo 2024. ANSA/JAGADEESH NV
Celebrazioni del Maha Shivratri in onore del dio Shiva, a Bagalore, India, 8 marzo 2024. ANSA/JAGADEESH NV

Il terzo elemento da considerare nel contesto delle elezioni politiche in corso in India è la dimensione religiosa. L’India è un Paese laico, ma non nella accezione francese – di chiara distinzione dei due ambiti, politico e religioso – e nemmeno secondo quella americana o se si vuole anglosassone – dove la religione continua ad avere un suo ruolo: basta pensare a quante volte i candidati americani alla presidenza ripetono la parola “Dio”, soprattutto in occasione delle primarie –.

L’essere laico nella politica indiana ha sempre avuto una connotazione di rispetto per ogni tradizione religiosa: il governo e le amministrazioni, tradizionalmente, non possono offrire adito a preferenze per l’una o per l’altra. Con la politica rampante del Bjp (Bharatiya Janata Party) del premier Modi e della sua agenda per uno stato indù (hindu rashtra, nazione indù) questa sensibilità difesa per decenni si è progressivamente e velocemente trasformata in una discriminazione socio-politica nei confronti di alcune minoranze religiose. Al centro di questo processo stanno i musulmani, accusati di minacciare la presenza indù con la loro crescita esponenziale. Si tratta di una vera fake-news. Basta riflettere sul fatto che in un Paese, di fatto, indù – il 78% della popolazione – i musulmani restano attorno al 14% con una crescita demografica senz’altro superiore a quella delle altre comunità (sia indù che cristiana) ma sempre molto lontana dal poter raggiungere i numeri della popolazione indù.

In tale contesto, negli ultimi dieci anni, il governo Modi si è distinto per una sistematica politica antimusulmana. Alcuni esempi possono chiarire quali sono stati i passi compiuti, immagine di una politica ben concertata. Dopo che una folla inferocita, nel 1992, aveva distrutto la Babri Masjid di Ayodya, con l’accusa che la moschea era stata costruita su un preesistente tempio dedicato al dio Rama che la tradizione vuole sia nato proprio ad Ayodya, qualche mese fa il Primo Ministro Modi ha inaugurato un ad Ayodya nuovo tempio dedicato proprio a questa divinità. Alla sua inaugurazione, Narendra Modi non si è limitato a presenziare, ma ha di fatto officiato la cerimonia, ovviamente insieme a decine e decine di brahmini e purohit (sacerdoti indù), rivolgendosi con parole di richiesta di perdono al dio che finalmente con quell’atto era tornato a casa sua. Di fronte a questo strapotere politico-religioso i musulmani hanno potuto fare ben poco.

Un secondo fatto, assai grave, è stata, negli ultimi anni, l’approvazione da parte del Parlamento indiano di una legge che prevede la possibilità di accoglienza a profughi di Paesi vicini, a patto che non siano musulmani. È bene ricordare che Pakistan, Afghanistan e Bangladesh sono a larghissima maggioranza musulmana mentre i piccoli Nepal e Bhutan sono a maggioranza indù con una presenza musulmana trascurabile. Con questa legge, sono stati rimpatriate migliaia di persone non indù e altre decine di migliaia rischiano di esserlo nei prossimi mesi o anni, in quanto arrivati come rifugiati politici e non in possesso dei regolari documenti che permetterebbero loro di restare in India.

Infine, nello stesso periodo, con una mossa a sorpresa – tipica di questi anni dei suoi due governi – Modi ha commissariato il Kashmir, stato a larga maggioranza musulmana, rivendicato fra India e Pakistan, che godeva di uno statuto speciale e che è da alcuni anni legato direttamente al governo di Delhi, senza la possibilità di un governo locale come prevede la Costituzione per ognuno degli stati indiani. La decisione unilaterale di Modi e del suo governo è stata percepita come una discriminazione rivolta alla comunità musulmana che rappresenta la maggioranza della popolazione di quella regione al Nord dell’India.

Tuttavia, l’aspetto più grave, senza nulla togliere a quanto appena descritto che è spesso stigmatizzato come determinato da un regime piuttosto che da uno stato democratico, è stata la interpolazione dei libri di storia in dotazione alle scuole del livello primario: elementari e medie. Nell’aprile 2023, infatti, il Comitato Nazionale di Ricerca Educativa e di Formazione (NCERT), che sovraintende alla pubblicazione dei libri di testo per tutte le scuole dell’India, ha preso la decisione, anche questa unilaterale, di eliminare dai libri di testo l’unico capitolo dedicato alla storia Moghul.

Come si sa, il periodo Moghul, in particolare fra il XV e il XVI secolo, ha rappresentato un momento di grande sviluppo culturale ed artistico, nato dall’incontro – e non di rado anche scontro – di cultura originaria del Sub-continente indiano tipicamente indù e quella proveniente dal mondo musulmano. Si tratta di un chiaro tentativo di penalizzare la pluralità religiosa nella storia indiana e nella formazione della memoria storico culturale del Paese. Inoltre, nel corso degli ultimi anni, non sono mancati altri tentativi da parte dei nazionalisti indù di omettere la diversità religiosa nella storia indiana, sia nelle università che nelle scuole. Così i Moghul, parte integrante della cultura e del retaggio storico del sub-continente, corrono ora il rischio di essere derubricati completamente. Basti pensare che il famoso Taj Mahal è proprio espressione di questa cultura Moghul.

Gli anni dei Moghul, di chiara provenienza musulmana, sono considerati dai nazionalisti fondamentalisti come il periodo “buio” della storia indiana. Non mancano archeologi e storici che si sforzano a rileggere la storia secondo le linee suggerite dall’attuale governo. Un esempio tipico è quello di Braj Basi Lal, ex Direttore Generale dell’istituzione archeologica più importante dell’India, il Survey archeologico dell’India, che nel 1990 ha pubblicato un articolo non verificato e non sottoposto a revisione sostenendo l’esistenza di prove della distruzione del tempio sotto il sito della moschea di Babri, presumibilmente da parte di Babur, il fondatore della dinastia Moghul. L’articolo di Lal è stato pubblicato su una rivista associata al Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), che sostiene il governo Modi. Il contributo di Lal è solo un esempio della grande spinta verso il revisionismo storico che l’ideologia dell’Hindutva ha creato fin dalla sua nascita.

Per contro, la famosa storica indiana Romila Thapar, vero luminare e con grandi riconoscimenti a livello internazionale, è stata aspramente criticata dai nazionalisti indù per aver favorito quello che viene definito come educazione scolastica “anti-indù”. È stata denunciata da alcune organizzazioni religiose-politiche per aver sostenuto che nei tempi antichi, anche in India si soleva consumare carne di mucca.

È possibile leggere gli articoli precedenti sulla complessità delle elezioni politiche in corso in India ai seguenti link: Sono iniziate le elezioni in India e India, caste e politica, equazione complessa

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre rivistei corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Il voto cattolico interessa

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons