India: quale futuro per la Repubblica?

La 73esima Festa della Repubblica si è svolta come ogni anno in tutta l’India. Ma quest’anno è cambiato qualcosa: certamente a causa del Covid, ma non solo. Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati, una delle voci più autorevoli della Chiesa cattolica indiana e non solo, invita ad un esame di coscienza collettivo.
Celebrazioni per la Festa della Repubblica dell'India, a Nuova Delhi, foto Ap.

Il 26 gennaio è da decenni – esattamente dal 1950 – un giorno importante in India. Un miliardo e quattrocento milioni di indiani si fermano per celebrare la Festa della Repubblica. Per questo il Paese si riveste del tricolore (indiano) che campeggia ovunque, fino alle coccarde che gli studenti delle scuole elementari e medie vendono per strada per pochi paise (centesimi) e che moltissimi si fissano sul petto con una spilla.

Gli occhi di tutti sono puntati sulla capitale: a Delhi, infatti, si svolge una parata sontuosa con le forze armate e gli armamenti di ultima generazione, ma anche con le rappresentanze dei vari stati dell’Unione Indiana, che mostrano i colori variegati del caleidoscopio etnico, culturale, linguistico e religioso che è l’India. Ogni anno il capo di stato di una nazione straniera è invitato ufficialmente a presenziare alla celebrazione. Ma l’evento – quest’anno sono 73 anni dall’istituzione della Repubblica – non è limitato a Delhi. I festeggiamenti, le parate, gli inni nazionali si moltiplicano nelle capitali degli Stati alla presenza dei vari Governatori e Chief Minister (Primi ministri locali).  Il 26 gennaio è il giorno in cui – insieme al 15 agosto, Festa dell’Indipendenza – ogni indiano si sente orgoglioso di essere tale.

Negli ultimi anni – a causa del Covid – tuttavia, alcune cose sono cambiate. L’umore popolare è diverso, ma anche la parata, pur mantenendo la sua pomposità appare in tono minore per la partecipazione limitata di pubblico, altrimenti straripante, sia pure con controlli esasperanti per la paura di attentati e di azioni anti-governative. Allo stesso tempo, molti avvertono un forte disagio sociale per le politiche sempre meno “democratiche” del governo Modi.

Il primo ministro indiano Nerendra Modi (India Government Press Information Bureau via AP, File)

Da un lato, l’abile leader politico del Bharatya Janata Party (BJP) ha dato una coscienza di identità all’ethos (abitudini di vita, ndr) di molti indiani, in particolare indù della classe media e medio-alta, e si è mostrato molto scaltro nel manipolare, via via, minoranze etniche e religiose come pure gruppi sociali anche ai margini della società, come i dalit (fuori casta). Dall’altro, in questi anni la gestione del governo è sempre più diventata una “democrazia alla Modi”, con un progressivo indebolimento proprio del primo termine del binomio. Emerge un legame sempre più forte fra il segmento sociale che è stato capace di arricchirsi negli ultimi anni, soprattutto in questi di pandemia, e il governo Modi. Si sta formando una pericolosa leadership che rischia di essere quella che controllerà l’intera nazione indiana negli anni a venire.

Questo fenomeno è sottolineato da un attento osservatore, Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati, una delle voci più autorevoli della Chiesa cattolica indiana, e non solo. Per questo sarebbe auspicabile che la Festa della Repubblica offrisse a cittadini, amministratori e leaders «l’opportunità per un esame di coscienza collettivo. Dobbiamo chiederci – nota Menamparampil – in quali aspetti non abbiamo mantenuto fede alle attese e alle speranze dei nostri padri fondatori. E in India oggi viviamo un tempo in cui è urgente ripensarci».

Si tratta di un monito severo, ma necessario. Il Paese, riconosciuto come uno dei potenziali grandi protagonisti della scena mondiale dei prossimi decenni, secondo un recente rapporto Oxfam, vive ancora in mezzo a contraddizioni endemiche. La pandemia ha infatti provocato una diminuzione di reddito per circa l’84% delle famiglie e, al contempo, il numero dei miliardari indiani è aumentato da 102 a 142. A questo pericoloso connubio fra politica populista e freschi parvenu del mondo economico e della finanza, si aggiunge il crescente allontanamento dell’attuale governo dai principi che hanno ispirato la Carta Costituzionale indiana e la nascita del sistema repubblicano.

Molti temono una cosiddetta “dittatura della maggioranza” (indù) in un Paese che, invece, è stato fondato, anche grazie ai suoi millenari trascorsi storici, su principi di grande rispetto delle differenze etniche, culturali e religiose. Proprio questi valori, parte del dna culturale, religioso e storico del sub-continente, avevano costituito la spina dorsale della neonata Repubblica nella prospettiva del modello indiano di laicità, qui definito “secularism”. Si tratta di un atteggiamento di accettazione e rispetto per ogni cultura e religione, che si esprime in un trattamento egualitario per ciascuna di esse senza preferenze e, quindi, discriminazioni. Oggi, invece, i politici attualmente al governo «si preoccupano delle pretese della comunità maggioritaria molto più che del bene comune».

Nel corso di questi anni sono diventati sempre più numerosi gli episodi in cui membri di gruppi minoritari o fasce sociali più deboli hanno subito e continuano a soffrire per attacchi, vessazioni e discriminazioni, a fronte del silenzio della polizia e delle autorità. «Il dominio della maggioranza e lo svilimento dei gruppi più fragili non è un tratto democratico salutare» conclude il vescovo indiano. Immagine di questo stato di cose sono le leggi anticonversione, ormai approvate in dieci stati dell’Unione. Inoltre, la Costituzione indiana garantisce sulla carta la libertà di diffondere la propria fede, mentre attualmente si cerca di limitare anche la pratica religiosa, con gruppi di preghiera e raduni religiosi osteggiati.

A settantatré anni dall’entrata in vigore della Carta Costituzionale il Paese asiatico, fino ad oggi emblema di democrazia, è chiamato a riflettere sulla propria identità e sull’immagine di sè che vuole dare al mondo.

 

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