In Terra Santa soffia un vento di speranza

Continua il viaggio del nostro corrispondente in una zona di guerra dove mancano le cose essenziali, a cominciare dalla libertà. Ma la tregua sembra reggere e nel cuore di tanti c'è voglia di riconciliazione. Non tutto è perduto
Case distrutte a Gaza dopo i bombardamenti israeliani

Qui, a Betlemme, ogni mattina, alle 4,30 circa, una voce decisa e forte, dall’altoparlante intona la preghiera per tutta la valle: arriva dalla moschea. Dalla mia camera sento l’eco che giungerà chissà dove. Non ci sono rumori e la voce arriva chiara, nitida e forte. Mi sveglio ogni notte e accompagno la preghiera col mio sonno… interrotto. Una volta finita la preghiera, l’eco svanisce tra le valli e tutto ritorna calmo. Ora l’altoparlante tace e posso riprendere il mio sonno. Il vento soffia a volte abbastanza forte, è fresco per essere estate: è la vicinanza al deserto. Si dorme con una coperta leggera anche d’estate. Non si suda. Si soffre. Manca la libertà. Vivere tra gli arabi è una bella esperienza. Non c’è niente da temere a vivere tra la gente comune. C’è solo da amare, o almeno si prova, ad ogni occasione che capita. E capita spesso. A volte una piccola mancia al taxista, a volte un saluto amichevole a qualcuno e cosi’ via in mille occasioni durante la giornata.

Le difficoltà nella Cisgiordania sono tante: manca la libertà di movimento nei territori con differente statuto e controllo. Manca l’acqua perché le fonti sono state prese da chi sta in cima ad alcune colline fertili o da chi la utilizza per scopi industriali e poi te la rivende: la tua acqua, quella che era dei tuoi padri. Manca la possibilità di andare al mare ed è impossibile per molti andare all’estero. Si soffre.

Mi dicono che tanti soffrono, da una parte e dall’altra del muro: i moderati in Terra Santa soffrono, perché vogliono e vivono la pace nella loro vita, nei rapporti quotidiani; alcuni sono anche derisi o fraintesi. Potremmo dire che tutti i moderati, in queste terre, hanno vita dura, allo stesso modo. Questa è una realtà ‘forte’. Chi porta la pace, chi vive aiutando l’altra parte, il “nemico”, chi è aperto al dialogo verso tutti, non ha una vita facile, subendo pressioni da parte delle frange estremiste del proprio gruppo religioso, della propria gente.

Ho potuto incontrare musulmani, rabbini, cristiani moderati e tutti dicono la stessa cosa: devono stare attenti a parlare di comprensione, di pace, di perdono in mezzo alla propria gente, perché può essere pericoloso. È più facile odiare che costruire ponti. C’è un giornalista, per esempio, che ha assunto delle guardie del corpo perché ha ricevuto minacce dalla propria gente: parlava troppo di dialogo e di smetterla con questa guerra inutile, ha parlato di libertà per Gaza.

Mi viene in mente una frase che Madre Teresa ripeteva spesso: “Chi ama soffre”. In Terra Santa ho visto che è vero. Sia tra i musulmani, tra i cristiani, tra gli ebrei: chi vive per la pace vera non ha una vita facile. Ma è l’unica strada buona e giusta da percorrere che porti alla pace vera e duratura. Un padre di famiglia, di tre belle ragazze, mi diceva alcuni giorni fa: “Nella mia terra devo chiedere il permesso per viaggiare: lo chiedo a Dio. Se Lui vorrà potrò andare a quell’incontro dove si vive l’amore scambievole e il dialogo. Se non riceverò il permesso, vorrà dire che Dio non vuole. Noi accetteremo ogni cosa dalla Sue mani con amore”. Queste parole, senza nessun accenno di risentimento contro chi deve fornire o negare quel  pemesso, mi colpiscono dentro. Non so se io, al suo posto, sarei stato così pronto a dire quelle cose in quel modo. Sento che devo imparare ad amare il nemico e questa gente me lo sta insegnando.

Sulla via del ritorno verso Gerusalemme, qualche giorno fa, dovevamo passare un check point: uno dei tanti. Il posto da cui provenivamo era una zona sotto stretto controllo delle forze di sicurezza perché spesso ci sono tafferugli. Perciò, destavamo sospetto. Tra il resto, nella macchina, eravamo cinque persone di tre nazionalità diverse e molto distanti tra loro. Dopo una perquisizione accurata dei nostri bagagli e della macchina, ho guardato il  soldato davanti a me, con un mitra enorme di cui non conoscevo la marca. Mi faceva un po’ paura, il mitra. Ho guardato il soldato e gli ho detto a voce bassa, prima di uscire dalla stanza: "Buonasera". Siamo usciti e siamo andati a sistemare la nostra roba e l’auto per poter partire. Il soldato è uscito fuori e si è messo a guardare cosa stessimo facendo. Ormai eravamo pronti e stavamo per andarcene: un’altra guardia ci ha urlato che potevamo procedere. Dal finestrino dell’auto ho guardato l’altro soldato, quello col mitra, e gli ho fatto un segno di saluto: stavolta lui mi ha risposto, anche se molto pacato. Ho vinto io: ha vinto l’amore in me. Forse sto imparando qualcosa in questa terra benedetta. È una conquista anche per me, provare ad amare uno che, in questo momento, è un mio ‘piccolo’ nemico. Mi sento libero.  

Mi ritorna alla mente una frase di Chiara Lubich: “amare tutti”. Israliani, palestinesi, musulmani, cristiani ortodossi, armeni, copti, buddisti: tutti. “Amare tutti” qui è la medicina per questa guerra e per tutte le guerre. Anche dentro di me, di noi. Amare, provare ad amare tutti, a pensar bene dell’altro, a vedere il positivo dell’altro. È forte.

Mi accorgo che la Palestina, la Galilea, i check point, gli autobus arabi, tutto questo mondo che non conoscevo, stanno cambiando la mia vita. Devo solo essere docile e lasciare che l’amore prenda più spazio dentro di me. Ho ancora molti giorni da trascorrere in questa scuola di vita e molti amici mi stanno aiutando.

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