In quell’ora ieri e oggi

Riflessioni di un medico su un evento che troppo spesso avviene in ospedale, invece che a casa tra i propri cari, come una volta.
Articolo
Quando molti anni fa ho cominciato la mia attività professionale come medico condotto, la morte era una faccenda chiara e distinta: il malato, di solito nel proprio domicilio, spesso assistito da parenti numerosi e rattristati, cessava di respirare e il cuore di battere.

Come cantava De André in una sua canzone dell’epoca «morì come tutti si muore, come tutti cambiando colore», nel senso che si trattava di un passaggio di stato visibile e constatabile da tutti. Ricordo indimenticabili emozioni per la morte di mia nonna, di mia madre (che ci aspettò ai piedi del suo letto per congedarsi definitivamente) e di suor Benedetta che ebbi l’occasionale fortuna di assistere, accompagnata nel trapasso da tutta la sua comunità.

L’evento era appunto comunitario, il certificato di morte era steso da un dottore in medicina solo per funzioni medico-legali.

Da quando, per necessità di eseguire trapianti con organi in cui non fossero cominciati fenomeni degenerativi, una conferenza internazionale dettò le caratteristiche della cosiddetta “morte cerebrale”, la situazione si è fatta meno netta: si poteva dichiarare morto un soggetto con adeguata e complessa procedura, in cui il respiro continuava ed il cuore batteva, purché fossero compromesse tutte le funzioni dell’encefalo. La legge ne prese atto.

Ricordo quanti familiari, ma anche quanti medici, trovarono difficoltà ad accettare quel concetto.

Dopo l’osservazione (prima di dodici ore, poi di sei), se c’era il consenso degli aventi diritto per l’espianto, cominciavano le operazioni per mantenere “in vita” gli organi e gli apparati del dichiarato “morto”.

Le vicende poi, della “morte” di illustri personaggi come Franco o Tito, avrebbero dovuto allarmare tutti quelli che pensavano alla morte come un fenomeno ancora e sempre “naturale”, vedendo come i progressi tecnici e scientifici hanno permesso alla medicina di manipolare il confine tra vita e non vita di quegli illustri cadaveri, “non ancora morti” per diverso tempo.

 

Con le tecniche rianimatorie attuali, conservare il cuore battente ad un individuo già parzialmente cadavere, o richiamare in vita un individuo già clinicamente morto, sono forme di intervento medico sciaguratamente diffuse, nonostante le ammonizioni morali ed etiche sulla non liceità dell’accanimento terapeutico (prevista tra l’altro nel codice deontologico).

Accanimento diffuso perché i medici temono l’accusa di omicidio colposo, di «non aver fatto tutto quello che era umanamente possibile». Spesso poi si mandano gli infermi a morire in ospedale perché «non si sa mai quel che si può ancora fare» ed è bene in ogni caso che lo facciano altri.

Ricordiamo poi che l’articolo 32 della Costituzione e molti documenti internazionali, che il nostro Paese ha sottoscritto, nonché tutta l’evoluzione della giustizia, richiedono, per ogni atto medico, il consenso informato del paziente.

Questo è la sottoscrizione di un atto in cui il paziente dichiara che è stato sufficientemente informato degli scopi e degli effetti positivi e negativi della procedura terapeutica e che quindi firma il proprio consenso ad eseguirla o rifiutarla.

La concezione che il medico da solo doveva a suo giudizio, beninteso in scienza e coscienza, applicare la soluzione terapeutica migliore per il malato è definitivamente tramontata dopo che il Tribunale di Firenze ha condannato per omicidio preterintenzionale quel medico che aveva eseguito un intervento operatorio mutilante, a suo giudizio necessario, che gli era stato proibito espressamente da paziente e familiari.

Medicina e giustizia perseguono da più di vent’anni questi percorsi. L’averlo ignorato è una colpa grave di negligenza, imperizia ed imprudenza da parte di coloro che svolgono attività di persuasione morale, educativa o politica ed hanno le nozioni sufficienti per capire che il caso Englaro non è stato un fulmine a ciel sereno, ma un’evenienza che si preparava da più di vent’anni.

 

Diciamo allora che tenere la testa sotto la sabbia non ha impedito che gli eventi maturassero anche contro i desideri o le aspettative di molti. Benvenute tuttavia le tardive resipiscenze.

Da qui la necessità, negata ostinatamente per anni, del testamento biologico, che la Commissione nazionale di bioetica ha sottoposto al Parlamento da diversi anni.

Ora che tutti ne sono convinti, il tema si è spostato su due falsi problemi: la nutrizione e l’idratazione, e chi decide se accettare o non consentire le cure secondo la modalità del consenso informato.

Nel primo caso, stabilire che non si devono sospendere l’alimentazione e la nutrizione per chi non è in grado di decidere è pleonastico ed irriverente. Credo che il servizio sanitario non possa mai sospendere le cure ad uno che non le rifiuta – a meno che non si tratti di accanimento terapeutico –, quindi il problema è caso mai quello di sostenere con adeguati provvedimenti tutti coloro che devono provvedere alla bisogna (fatto che non succede in misura adeguata).

Relativamente poi a “chi decide”, si è detto che in una democrazia laica, comunitaria e solidale come la nostra, gli individui non possono decidere, spetta alla collettività, per cui basta che il Parlamento faccia una legge (lo dice anche l’articolo 32).

Non è una via spianata. Come la mettiamo con l’articolo 13 della Costituzione, secondo cui «la libertà personale è inviolabile» e con la giurisdizione, incline a ritenere che le decisioni sulla propria persona, che non ne violino la naturale dignità, sono prerogativa esclusiva del soggetto?

A sentire le parole in libertà spese in questi giorni da autorevoli fonti e improvvisati esperti, esprimo, in conclusione, limitate speranze e forti timori per il futuro, per la vita e la morte dei cittadini della Repubblica, nessuno escluso.

Nel frattempo, ciascuno a suo modo, ma tutti coralmente “preghiamo” perché lo Spirito, o almeno l’umana sapienza e ragionevolezza, ispirino indistintamente i nostri rappresentanti nelle assemblee legislative affinché, cessate le ingiurie e riposte le secolari inimicizie, trovino la via di un fruttuoso dialogo per il bene di tutto il popolo, trepidante e discretamente arrabbiato.

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