In cerca di immagini amiche

Corpi femminili e maschili dominano i manifesti condizionando cittadini e aree urbane. Iniziative per recuperare spazi di bellezza.
Manifesti

Roma: uscita della metro. Lo sguardo di una giovane donna celato da occhiali scuri troneggia su una gigantografia. Ai suoi piedi una folla in corsa, quasi soggiogata dalla sua figura. Palermo: viale Libertà. La Chiesa delle croci, in restauro, è rimasta impacchettata per mesi dentro la foto di tre bellissime e irraggiungibili con telefonino alla mano. Milano: Stazione centrale. Modella magrissima ritratta in bianco e nero. Gli accessori: una borsa, una collana, un bracciale sono a colori. Qualcuno pensa a una campagna contro l’anoressia, data la magrezza della testimonial, ma in realtà è la promozione di un centro commerciale specializzato nella vendita di vestiario di marca.

«Ammiro le belle ragazze ritratte sui manifesti, ma non mi sogno neppure di competere con loro». Marina, docente di diritto penale, non ha dubbi. «E poi non avrei avuto scampo: mia suocera è stata una miss». «Vivo nella capitale della moda − ci dice Mapi, consulente di una quotata azienda elettrica − e qui apparire conta molto. Le modelle sono veramente un modello, anche in ufficio. Una buona immagine rende tutto più semplice». «Le pubblicità femminili non mi dispiacciono − dichiara Francesco, pugliese e programmatore informatico −. Mi infastidisce molto di più vedere i monumenti imbragati di immagini, qualsiasi cosa ritraggano, e poi la tv è molto peggio».

Volti e voci diverse che esprimono reazioni molteplici alle gigantesche icone femminili (e maschili) che colonizzano gli spazi delle nostre città. Emanano emozioni, desideri. Parlano agli occhi, alla testa e, per le aziende, si spera anche al portafoglio. Ma è proprio vero che pubblicizzano solo shopping? Aggrediti o affascinati da questi cartelloni invadenti, incameriamo sottilmente uno stereotipo di bellezza femminile ammiccante, seducente, in vendita.

 

Immagini nemiche del corpo

 

«Non vogliamo più vedere pubblicità nemiche del corpo delle donne circolare nello spazio pubblico abitato da cittadine e da cittadini, da bambine e da bambini». Con questo slogan l’8 marzo, l’Udi (Unione delle donne italiane), storica associazione di sinistra, impegnata da 50 anni a difesa delle donne, ha lanciato la campagna “Immagini amiche”. Obiettivo: contrastare gli stereotipi femminili in pubblicità, su tv, Internet e giornali.

Ma è veramente solo un problema femminile? O questo sguardo si estende anche sugli uomini? Tatuati, muscolosi, palestrati, atleti o tronisti condividono con le donne gli spazi pubblici e i programmi tv. Lo stampo estetico è monodimensionale: bellissimi, giovani, di successo.

«È una mercificazione della dignità umana, indipendentemente dal sesso − afferma Carlo −. Di solito chi dissente da questa visione è trattato come bigotto o reazionario». Carlo ricorda, poi, l’intuizione del movimento situazionista, critico nei confronti della società dello spettacolo, quando apponeva sui cartelli pubblicitari un adesivo con scritto: «Ciao, uomini! Sono la foto di una donna che non esiste. Ma il mio corpo corrisponde allo stereotipo che voi siete stati condizionati a desiderare. Siete nelle mani della gente che mi ha messo quassù. Babbei!».

Proprio sulle foto che rappresentano donne irreali, la casa di moda Ralph Laurent, bersagliata sul web per la sua ultima campagna pubblicitaria, ha chiesto scusa ai clienti per aver reso pelle e ossa una nota modella taglia 44. Il ritocco fotografico a scopo di marketing è stato oggetto anche di una risoluzione del Parlamento europeo che ha raccomandato un utilizzo responsabile della figura femminile: «da non ridurre adun manichino privo di dignità». Una parlamentare francese, insieme ad altri cinquanta colleghi uomini, è andata oltre, e ha proposto che i manifesti pubblicitari riportino la scritta: «Attenzione: questa è un’immagine ritoccata che modifica l’apparenza fisica di una persona». Una proposta niente male!

 

Alla ricerca della bellezza

 

La bellezza resta comunque un business. Gli italiani nel 2008, solo per prodotti per il corpo, hanno speso un miliardo e 300 milioni di euro. Per un intervento di chirurgia estetica i costi vanno da 3 mila a 11 mila euro. E se pensiamo che ogni anno ben 180 mila persone si sottopongono a un ritocco, le cifre lievitano notevolmente. Secondo una ricerca  sulla medicina estetica, presentata lo scorso febbraio al ministero della Salute, un’italiana su tre è scontenta del proprio aspetto.

«Non riusciamo più a guardarci con i nostri occhi, ma solo con quelli degli uomini», ci spiega Lorella Zanardo, autrice del documentario Il corpo delle donne, che da aprile uscirà come libro per la Feltrinelli. «Nel mio lavoro, che ho realizzato insieme a due uomini, ho raccolto immagini dei tanti programmi che la tv ci porta a casa. Il nostro sguardo è assuefatto a donne seducenti, rifatte, mute e poco intelligenti. Volevo capire perché non reagiamo a questa umiliazione, di cosa abbiamo paura?». Convinta che l’immagine sia comunicazione, sapere, memoria, educazione, la Zanardo da circa un anno gira scuole, università, centri di cultura proiettando questo triste, ma eloquente collage. «È stata una scommessa, ma sono ottimista, perché si sono aperti percorsi, si è tornati a riflettere. Mi hanno invitata tanti studenti. I ragazzi sono molto aperti al dibattito, vogliono discutere, approfondire e con sorpresa, ho visto che i maschi sono più capaci di interloquire rispetto alle coetanee».

 

Forse perché più timide o perché oggetto del documentario, le ragazze sono state più riservate nel manifestare sentimenti e pensieri. Vera Araùjo, sociologa, lega questo silenzio a una lettura della storia che vede le donne occupare lo spazio dei vinti, mentre gli uomini «hanno sempre controllato sapere, potere, cultura e oggi anche i media». La Araùjo, però, intravede segnali importanti di cambiamento.

«Uno è lo sguardo cristiano, non impacchettato da forme istituzionali – spiega la sociologa –. Cioè occorre guardare le donne come Gesù le ha guardate e come ha parlato di loro. L’altro è il femminismo. Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, definisce il movimento di liberazione femminista un segno dei tempi, cioè un’azione dello Spirito, e riconosce la validità della fatica delle donne nel ritrovare la propria identità».

Anche la regista Zanardo propone una rivisitazione del termine femminista e della prospettiva culturale che lo accompagna. «Le ragazze e le giovani che incontro, mi dicono che femminista suona come un insulto al pari di racchia o sfigata. Questo mi fa dire che la battaglia sull’identità femminile va ripresa, accettando il rischio di perdere il consenso, di non piacere. Stavolta però non da solitarie, ma insieme ad altre forze sane». E perché non arruolare in campo gli uomini, messi anche loro in discussione da questi nuovi canoni estetici e identitari?

 

Segnali di novità

 

Intanto qualcosa comincia a muoversi anche a Hollywood. La Disney, ad esempio, per i provini del nuovo episodio del film Pirati dei Caraibi ha chiesto attrici non “rifatte” o “ritoccate”. E la società americana di chirurgia estetica conferma che le richieste di trattamenti di bellezza sono scese da 2.1 a 1.9 milioni, perché “naturale è meglio”. La campagna “Immagini amiche” apre poi la possibilità di dialogo con amministratori e aziende pubblicitarie per riappropriarsi sia degli spazi pubblici che di una comunicazione dove foto e raffigurazioni parlino di altri modi di essere dei corpi (e non solo) delle donne. Lettere, mail, quaderni bianchi che segnalano violazioni dell’immagine anche al Giurì della pubblicità, possono fare molto, come è accaduto per la casa di moda Laurent. La sfida è certamente impegnativa, ma stavolta a scendere in campo saranno sia le donne, che gli uomini.

 

Crisi di creatività

 

Raffaele Cardarelli, pubblicitario, ha lavorato per 25 anni in Unilever. Da 3 anni è responsabile della divisione Communications & Public Affairs di Poste italiane.

 

Perché un uso ancora così esasperato della fisicità femminile nei messaggi pubblicitari?

«Siamo inorriditi dall’uso dell’immagine femminile? E che dire di quella maschile? È una nuova frontiera nel nostro lavoro. E mentre prendono piede cremine rassodanti, fiale per capelli, unguenti per la pancetta, non possiamo solo limitarci a criticare e basta. Bisognerebbe proporre con il linguaggio delle emozioni una pubblicità altra. Non bastano le prediche, bisogna imparare a parlare al cuore. E anche segnalare alle autorità competenti ciò che non piace».

 

I creativi allora si affidano alla bellezza perché in crisi di idee?

«La pubblicità fa della bellezza un codice comunicativo, ma ne esistono molti altri, inesplorati, come ad esempio, l’ironia. Qualche anno fa, ad esempio, nessuno avrebbe scommesso sul ritorno in tv della Divina commedia, eppure Roberto Benigni ha saputo riproporla in maniera divertente, inchiodando allo schermo milioni di telespettatori. Gli uomini e le donne sono indistintamente attirati dall’arte, dalla cultura, dalla poesia, ma anche dai corpi. Noi pubblicitari abbiamo investito molto su quest’aspetto perché più diretto, ma forse non abbiamo sviluppato talenti sufficienti o non ci siamo impegnati abbastanza per inventare altro».

Maddalena Maltese

 

  

Donne (e uomini), non solo corpi

 

I corpi delle immagini pubblicitarie esposti nello spazio pubblico non nascondono significati reconditi. Come scrive John Berger, critico d’arte e pittore inglese, l’immagine femminile viene vincolata alla capacità di attrattiva sensuale e sessuale e viene intenzionalmente sfruttata alla stregua di una merce per valorizzare e promuovere altra merce.

Un bravo fotografo milanese ha provato a fare un esperimento: nelle scene metropolitane colte dal suo obiettivo i cartelloni pubblicitari sono stati ripuliti del marchio che pubblicizzano e l’effetto è straordinario. Se togliamo il nome del prodotto che rende “necessarie” quelle immagini, l’effetto di smascheramento è più evidente. Quelle enormi sagome femminili, di quale essere umano ci parlano?

Corpi femminili sempre e solo giovani, corpi emaciati, occhi alienati, labbra che mai si schiudono in un sorriso, il più umano e umanizzante dei nostri riflessi, ci raccontano un uso degradante e svilente del corpo della donna. Più in generale fanno emergere una rappresentazione scorretta della relazione tra uomo e donna.

Dietro ogni rappresentazione volgare della donna, infatti, si presuppone l’esistenza di un uomo disposto a “consumare” tale immagine, un uomo ridotto al proprio istinto sessuale più meccanico, oppure l’esistenza di donne che amano perdere tempo valutando corpi di altre donne (se no, perché le riviste femminili sono piene di immagini così?). Sempre più frequentemente, inoltre, il panorama urbano si è riempito di muscolosi e levigati corpi di uomini, di efebici ragazzi, di figure dall’identità sessuale ambigua pronta a sollecitare in eguale misura uomini e donne (e soprattutto i ragazzi più giovani).

Lo stereotipo di genere dunque mi pare inchiodare sia le donne che gli uomini e segnare lo scacco di una relazione positiva. La reiterata messa in scena di rapporti di dominanza, di sottomissione rischia di entrare nella relazione tra uomini e donne. Le immagini, infatti, mentre riflettono la cultura, nello stesso tempo contribuiscono a crearla e rinforzarla.

Rischiamo dunque di assuefarci alla banalità di queste immagini e, quando il nostro occhio si abitua a questi paesaggi, la nostra testa può venire docilmente guidata dove non scegliamo di andare. È allora in gioco la nostra dignità, certo, ma anche la nostra libertà di uomini e di donne. Libertà di guardarsi negli occhi, di incontrarsi nel profondo.

Elena Granata

 

 

LA PAROLA AI LETTORI

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