Immigrati e integrati

Articolo

Fino agli anni Cinquanta Padova era una città che perdeva tanti dei suoi figli migliori per via della povertà e dell’emigrazione: sono decine di migliaia i padovani di origine che abitano ora l’Agro Pontino, giusto per fare un esempio; e quanti cognomi veneti si trovano negli elenchi telefonici delle zone minerarie di Belgio e Olanda e Germania! Ma le cose sono radicalmente cambiate, e il boom industriale del nord-est – esempio di creatività e di savoir faire italiano -, porta notevoli flussi di immigrati sulle rive del Bacchiglione. Da sempre frequento per motivi anagrafici la città del Santo, e ne ho quindi potuto cogliere a diversi momenti l’evoluzione. Quattro anni fa, nella piazza delle Erbe e in quella della Frutta, separate ed unite dal Palazzo della Ragione nel cuore della città medievale, ancora popolata da banchi e banchetti del mercato ortofrutticolo, il volto scuro di un cingalese dall’italiano precario ma dall’accento veneto impeccabile mi aveva colpito non poco. Mentre a Rubano, nella industriosa periferia, in una fabbrica meccanica mi hanno raccontato tre anni addietro che gli operai provenivano da quattordici diverse nazionalità, mentre le maestranze italiane erano ormai sotto il 40 per cento. E nella città universitaria, assistendo recentemente un congiunto, ho avuto le informazioni da un medico iraniano. 18.500 immigrati Se nell’intera provincia di Padova si trovano più di 40 mila immigrati, nel capoluogo se ne contano circa 18.500, l’8,66 per cento della popolazione – mi dice Claudio Sinigaglia, vicesindaco di Padova e assessore alle politiche sociali -. Le maggiori comunità presenti sono quelle rumena e moldava, con forti rappresentanze di magrebini, cingalesi e filippini. Quali sono i problemi maggiori legati all’immigrazione che si registrano nella città? I classici problemi – mi risponde -, e cioè lavoro e residenza, in una parola difficoltà di integrazione. Sicuramente Padova è ormai una città interetnica, ma non è ancora detto che sia interculturale. È sulla via per divenirlo, ma bisogna ancora lavorare, per far sì che l’integrazione non sia scalzata dalla ghettizzazione. Il rischio del ghetto infatti c’è. Prendiamo come esempio Via Anelli, 286 appartamenti di 30 metri quadri ciascuno, dove vivono quasi esclusivamente cittadini stranieri, per gli errori delle amministrazioni cittadine e per la speculazione dei proprietari. È il più grave problema d’integrazione nella città, che porta con sé spaccio e prostituzione, degrado umano e ambientale. Qualcosa si fa, anche per la pressione di alcuni comitati ad hoc. Così recentemente il comune ha sgomberato tre palazzine, e novanta famiglie sono state inserite in altri quartieri della città, mentre quasi la metà di esse vengono assistite dai servizi comunali per problemi finanziari e sociali. La pur difficile situazione di via Anelli – riprende il vicesindaco – dimostra la buona collaborazione che esiste in città tra istituzioni e associazioni caritative o di assistenza. Un contributo che ha permesso alla città di conoscere un’integrazione assai normalizzata, senza l’insorgere di tanti problemi. Ad esempio, nella parrocchia di San Pio X, quella di via Anelli, da tanti anni dei volontari insegnano la lingua italiana agli stranieri, gratis, e li aiutano a muoversi nel dedalo dell’amministrazione. Così gli immigrati imparano il rispetto delle leggi e le norme della convivenza civile della nostra città. Quest’azione ha certamente impedito che il problema di via Anelli diventasse più virulento di quanto lo è ora. Chiedo allora al vicesindaco Sinigallia come mai, secondo lui, il rapporto Caritas/Cnel del 2005 abbia assegnato al Veneto il primato della classifica per la migliore qualità della vita offerta agli immigrati. Quale il cocktail offerto? Penso all’opportunità di distribuirsi sul territorio con una certa armonia, ad esempio nella zona pedemontana, in cui esistono tante possibilità di inserimento. Così non c’è ghettizazione, la gente conosce di persona gli immigrati e l’integrazione diventa più facile. Immigrato non è perciò sinonimo di emarginato, di quello che troppo spesso si vede in tv, ma il vicino di casa che spazza davanti all’uscio. Prendiamo lo sport – è ancora Sinigaglia -; è uno strumento di grande importanza per integrare i ragazzi. O, ancora, gli asili nido, dove i bambini di diverse nazionalità si conoscono e imparano a giocare insieme. In alcuni asili il 35 per cento dei bambini è straniero. E non dimentichiamo i Centri servizi territoriali che forniscono aiuti economici alle famiglie nel bisogno, di cui il 20 per cento è immigrato. Gli appartamenti di fratel Valeriano Tra le tante organizzazioni private che lavorano nel campo della immigrazione, l’Associazione Murialdo ha qualcosa di originale. Nata dall’ispirazione dei Giuseppini del Murialdo, appunto, offre case e appartamenti per l’accoglienza di ragazzi abbandonati e orfani, lo scopo primo della congregazione. A Padova, in collaborazione con numerosi laici, nel 1978 ha cominciato ad offrire un certo calore familiare soprattutto a bambini e adolescenti padovani, quando gli istituti ad hoc avevano cominciato a chiudere i battenti. Non sono grosse strutture – mi spiega fratel Valeriano Maragno -, ma appartamenti in affitto (70 solo a Padova), in cui noi viviamo insieme a loro. Noi, cioè tre religiosi e una cinquantina di volontari. Abbiamo poi una serie di alloggi dove ospitiamo adulti che non hanno ancora una casa. I proprietari si fidano di noi, quando non si fiderebbero degli immigrati. Ora anche i servizi sociali del comune ci affidano minori stranieri abbandonati, una vera e propria categoria sociale, provenienti da Romania, Bulgaria, Moldavia… Li teniamo come fossero italiani. Diventano figli anche loro per noi, e li accompagniamo alla maggiore età, aiutandoli a mettersi in autogestione con altri in appartamenti da loro affittati. Marocchino, Abdul è stato il primo immigrato ospitato. Ora sono una ventina gli appartamenti occupati da stranieri, una novantina. In genere dopo qualche tempo le famiglie immigrate trovano una loro casa, ma mantengono un rapporto di amicizia con l’associazione, come ha fatto Abdul. Perché? Rappresentiamo quegli italiani che li hanno trattati bene – risponde fratel Valeriano -, e quindi ci serberanno perenne riconoscenza. A questo proposito, ci tengo a dire che la gente da noi accolta di solito si integra bene; sono papà e mamme esemplari, lavoratori indefessi che non fanno gli schizzinosi. La qualità dell’accoglienza facilita l’integrazione, la nascita di amicizia e fraternità – tra noi italiani e loro stranieri -, e gli immigrati non si sentono perciò esclusi. È gente che non farebbe del male nemmeno a una mosca. Prova ne siano i condomini nei quali i ragazzi hanno il loro appartamento: sul campanello non c’è mai scritto comunità o centro accoglienza, ma solo i nomi di chi vi risiede. I rapporti coi vicini diventano normali, e si può dire che non ci sono incidenti gravi, salvo… qualcuno che protesta talvolta per lo stereo troppo alto. Ma questi sono problemi che hanno ancor più coi figli! Il rispetto della loro fede Fratel Valeriano, in collaborazione coi Focolari della città, ha avviato una serie di iniziative al fine di aiutare gli immigrati a sentirsi rispettati anche nella loro confessione cristiana non cattolica, o nella loro religione non cristiana. L’idea di base è semplice: bisogna rispettare l’altrui fede, non bisogna cercare di cambiargliela. E questo può avvenire soprattutto in un proficuo scambio di esperienze di vita, da cui emerga il profondo legame che esiste tra fede e vita. Sono incontri senza nessuno spunto sincretista – i musulmani, ad esempio, ad un certo punto si ritirano a pregare in un locale, mentre i cattolici partecipano alla messa -. La fraternità è l’elemento che emerge nelle nostre iniziative – mi spiega Margherita Inglese, dei Focolari -. Così, a poco a poco, succede che ci si racconta delle proprie difficoltà al lavoro e in famiglia; qualcuno chiede di essere aiutato per problemi di salute,con altri si scambiano le esperienze nel mondo del lavoro, o altro ancora. E si impara a convivere. Mons. Giuseppe Dal Ferro è presidente dell’Istituto di scienze sociali Nicolò Rezzara di Vicenza, e nel Veneto è tra le autorità ecclesiali più ascoltate nel campo del dialogo interreligioso, che insegna anche a Padova. Mi trovo assai in sintonia con questo tipo di iniziative – mi spiega -. Ritengo infatti che un primo aspetto importante sia quello di chiarire che ci incontriamo tra uomini religiosi in un clima di stima reciproca, e che ci aiutiamo a camminare in questa ricerca. Su questa base ci può essere un confronto molto concreto, ad esempio a proposito dei cimiteri o della ricerca di sale di preghiera da parte di altre comunità religiose, con interventi in genere apprezzati, che favoriscono un clima di dialogo. Si è visto che questo stempera il rapporto, e crea un notevole senso di fiducia. Aggiunge mons. Dal Ferro: Questo il nucleo fondamentale di un confronto sereno nel quale ci si aiuta a vivere meglio la propria religione. I temi più prettamente religiosi creano problemi, mentre si può parlare di quello che insieme possiamo offrire a una società sempre più indifferente. I frutti di un tale atteggiamento? Un esempio tra i tanti, quello di Ahmed Osman ha 20 anni, viene dalla Somalia e vive a Padova con la famiglia. Frequenta i Focolari. È musulmano. Quando mi trovavo in un campo profughi in Kenya – mi racconta -, ho sofferto molto. Il mio maestro, quando seppe che stavo partendo in Italia, mi disse che ci sarebbero state persone che ci avrebbero fatto cambiare di religione con la forza, e quindi mi sconsigliò di partire. Ma non era vero.Ho scritto allora al mio maestro, raccontandogli degli incontri che facciamo insieme musulmani e cristiani, e come questi sono sempre rispettosi e vogliono bene a tutti. Gli ho detto anche di non prendere le persone come portatori di male se non le si conosce a fondo, e di insegnare questo ai suoi alunni. Dai cristiani Ahmed ha imparato a condividere la pace. Ad esempio – mi racconta -, il vicino che abita sotto di noi veniva spesso a bussare innervosito, perché siamo una famiglia numerosa e vivace. Abbiamo cercato di spiegargli che abbiamo due fratelli piccoli e abbiamo cercato per quanto possibile di fare più piano alla sera. Per farlo felice, quando riceviamo dei viveri che non ci servono o della carne di maiale, facciamo un pacco e glielo regaliamo. In un’altra occasione, la mia professoressa d’italiano parlava di Islam e diceva delle cose molto negative, false. Io non ho reagito, ma ho spiegato che l’Islam ha come pilastro la parola pace e che il valore più grande è per noi la libertà di seguire la legge di Dio. Alla fine lei mi ha confidato:Ho capito, non conoscevo bene la tua religione. Gocce di integrazione riuscita. A Padova.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons