Il volto umano della tragedia

Papà, non prendere me, salva prima la mia maestra: è laggiù, la vedi? Ha più bisogno di me. Sana, dieci anni, si rivolge con calma al papà. Lei è tutta impolverata, illuminata solo dalla fioca luce che rischiara il minuscolo cunicolo che si apre verso l’insperata salvezza. È con occhi commossi ed attoniti che Sikander Ali, il papà di Sana, mi racconta la sua incredibile storia. Ero ormai disperato, la mia bambina è morta, mi dicevo. E così sono andato piangendo a cercare di salvare altre persone rimaste sepolte sotto le macerie di un’altra casa. Ma ho trovato solo morti da seppellire. Mentre continuavo ad aiutare gli altri, ho sentito una voce: era lei che mi chiamava! Così ho trovato Sana ancora viva. Non l’ho ascoltata, ho fatto uscire prima lei dall’apertura sotto il tetto crollato della scuola. Ma poi sono riuscito a salvare anche la sua maestra, che ha le gambe spezzate, ma vivrà. E anche altri trentacinque compagni di classe di Sana. Ormai sabato 8 ottobre 2005 è una data che purtroppo diventerà sinonimo di tragedia nella storia del Pakistan. Il terremoto di 7.6 gradi della scala Richter è stato il peggiore degli ultimi cento anni, ed è senz’altro la più grande calamità naturale subita da questo paese, nato nel 1947 dalla divisione con l’India. È un cataclisma di proporzioni immani, l’abbiamo sentito dai giornali e dalle tv, ma guardarlo con i propri occhi è altra cosa. Villaggi e città distrutte, intere famiglie scomparse. Strazia il cuore udire il portavoce governativo affermare che nella regione colpita abbiamo perso un’intera generazione . Sembra che siano almeno 15 mila i bambini e le bambine morti nel tragico sisma. Gli orfani si contano a migliaia. Il presidente Musharraf ha deciso che per ora non ci saranno adozioni, e che questi bambini saranno curati e istruiti dal governo, per evitare – come è successo in un paio di occasioni – che ci sia chi approfitti di questi confusi momenti per rapire i bimbi. Basta questo per capire come sia difficile gestire un’emergenza di queste proporzioni in un paese con tante opportunità, ma in questi anni provato da durissime difficoltà e sfide. Nei giorni immediatamente successivi al terremoto, la scena all’ingresso del General Hospital di Rawalpindi è agghiacciante: l’atrio, i corridoi, ogni spazio è occupato da barelle e lettini, con donne, uomini e bambini medicati alla meglio, alcuni in condizioni visibilmente gravi, e quasi tutti in silenzio, con lo sguardo smarrito, forse ancora sotto shock. Quando arriva un elicottero con un nuovo carico di feriti, mentre altri sorvolano l’ospedale, mi sembra di assistere alla scena già vista di un film di guerra. La più dolorosa e scioccante visione è quella di una bambina che non avrà più di dieci anni, con uno squarcio sulla guancia. Mentre un gruppo di giovani studenti di medicina (evidentemente non ci sono più medici disponibili) le prestano le prime cure senza anestesia, viene portato un uomo anziano su una sedia a rotelle. Rimane lì qualche minuto in silenzio, ad aspettare. Quando gli alzano la camicia sporca di sangue, si scopre un vuoto nella sua schiena. E questo era solo uno degli ambulatori del pronto soccorso… Ogni volta che si sente passare un elicottero, e capita molte volte al giorno, un brivido mi accappona ormai la pelle. Ciò che più mi colpisce è però la straordinaria solidarietà della gente nei confronti dei terremotati. Un coordinatore del pronto soccorso è impressionato dalla quantità di cibo, vestiario e medicine che ogni giorno arrivano. Mi racconta che il giorno prima non si trovavano più le flebo fisiologiche, ma quella stessa mattina gli era arrivato un camion, non si sa da dove, con duecento casse di flebo. Mi mostra una sedia a rotelle ancora imballata, donata da un signore poco prima. Durante la nostra conversazione si presenta un giovane con un sacchetto di medicine, e contemporaneamente tre studenti chiedono come possono rendersi utili. Donate sangue – è la risposta immediata -, dite ai vostri amici di donare sangue. Rivedrò poco dopo quei tre studenti pro- digarsi per il trasporto dei feriti dalle ambulanze che continuano ad arrivare. La città è costellata da punti di raccolta con pile di sacchi di farina, riso, vestiti. Tutti danno quello che possono, senza misurare, e tantissimi partono per le città più colpite dal sisma per portare aiuti. Negli ospedali non manca niente ora. Ci sono persino tavole imbandite con ogni ben di dio per l’iftar, la fine del digiuno al calar del sole, perché siamo nel mese di Ramadan. Governo e militari, imprese e giornali, singoli cittadini, organizzazioni pubbliche e private, come la popolarissima struttura sanitaria di Edhi Abdul Sattar, lavorano senza sosta per sostenere le vittime del terremoto. È una gara del dare, che molti non esitano a definire senza precedenti, ma che non si improvvisa e ha la sua sorgente nell’innata ospitalità pakistana. Una solidarietà che forse potrà far cambiare idea a quanti ancora pensano di poter identificare il Pakistan con l’estremismo islamico. Così come varie persone, vedendo l’immediato intervento della comunità internazionale nelle operazioni di soccorso, hanno almeno in parte cambiato idea sull’occidente, generalmente visto solo come sfruttatore e portatore di valori negativi. Questa situazione insomma, pur nella sua immane drammaticità, sembra non solo unire il Pakistan, ma gettare anche nuova luce sull’attuale dibattito intorno all’incontro-scontro tra l’occidente e il mondo islamico. Eppure la più grande lezione ci arriva proprio dalle vittime del terremoto. Gente che ha perso tutto, e in molti casi, l’intera famiglia. Ma che pur nel grande dolore si scopre paziente e tenace, dignitosa ed altruista, animata e sostenuta da grande fede. Sedendosi accanto a loro, piano piano emerge il dramma che hanno vissuto: quando la terra ha tremato, Zakia di 13 anni ha gridato alla maestra di scappare. La maestra ha detto a tutte di rimanere tranquille in classe. Ero impaurita. Ho disubbidito alla maestra e sono scappata. Appena sono arrivata alla porta il soffitto è crollato sulle mie gambe che si sono fratturate. Con questi miei occhi ho visto aprirsi la terra e inghiottire la maestra e le mie compagne. Sono l’unica sopravvissuta. Poi i miei genitori sono venuti a tirarmi fuori. Ho ricevuto di nuovo la vita. Sono qui da sola, ma i miei genitori sono vivi e io ritornerò da loro quando starò meglio. Ti senti sola? Hai bisogno di qualcosa? No, non mi sento sola, mi sento tanto amata, sono circondata da tanti fratelli, ci siete voi. Una giovane insegnante, Saima, stava preparando i libri insieme a quattro studenti fuori dalla classe. Si sono salvati solo loro di tutta la classe. Ero preoccupatissima per i miei quattro figli. Che ne sarà stato di loro? – racconta mentre sembra rivivere passo passo quei momenti -. Ma poi li ho ritrovati sani e salvi: Dio me li ha salvati. Quando poi mia mamma doveva essere trasportata in elicottero e mi ha chiesto di rimanere con lei, ho pensato che dovevo stare con chi aveva più bisogno e ho lasciato i miei figli là, affidandoli a conoscenti, sicura che Dio penserà a loro anche adesso. Sono piccole storie di dolore e solidarietà che ci parlano di un paese in ginocchio, povero ma generoso e solidale, che non si farà vincere dalla disperazione. Qui la gente si è abituata ad affrontare le difficoltà della vita, a convivere con un futuro spesso incerto. Da tempo non si ricorda un anno senza grandi stravolgimenti. Basti ricordare la sempre presente tensione con la vicina India, arrivata sull’orlo di una guerra tra due potenze nucleari, con il Kashmir da sempre territorio di conflitto e divisione. Eppure proprio le sofferenze e i tragici eventi di questi giorni, hanno paradossalmente fatto del Kashmir un luogo di incontro e contribuito ad un dialogo tra i due vicini parenti-nemici. Erano decine di anni che un velivolo di trasporto indiano non atterrava in suolo pakistano, e questa volta proprio per portare aiuti e rifornimenti alle popolazioni colpite. Quasi a rafforzare il positivo riavvicinamento politico ed economico dei mesi scorsi che nel comune dolore sembra aprire squarci di speranza di una pace regionale così necessaria per il benessere e la pace di tutti i cittadini. D’altra parte le difficoltà dei soccorsi sono state e sono ben al di sopra delle forze disponibili. Ora le necessità per ridare la salute alle popolazioni e per ricostruire quanto distrutto si annunciano enormi. È solo con l’aiuto generoso di tutti e con un’azione coordinata che si potrà riuscire a dare una risposta efficace e duratura alle vittime del terremoto. Vittime come la piccola Sana, che ancora indossa il shalwar qamees rosso che aveva all’uscita dello stretto cunicolo tramite il quale si è potuta salvare. Mi sorride, mi stringe la mano con la sua piena di graffi e ferite, mentre gli occhi di papà Sikander brillano; ma questa volta sono lacrime di gioia. Gente di cuore, questi pakistani. È questo il loro dono al mondo. Anche in un terremoto. COME AIUTARE Chi desidera inviare aiuti per l’emergenza in Pakistan attraverso i Focolari locali e l’Amu, può inviare i contributi nei seguenti modi: 1) per versamenti dall’Italia, si può usare il conto corrente postale n. 81065005, oppure il conto corrente bancario n° 100000640053 aperto presso la banca San Paolo-Imi -agenzia di Grottaferrata, codice ABI 01025, codice CAB 39140, CIN M. 2) per versamenti dall’estero si può usare il conto corrente della Banca San Paolo-Imi – agenzia di Grottaferrata, con queste coordinate bancarie internazionali: IBAN IT16 M010 2539 1401 0000 0640 053 BIC IBSPITTM. Questi conti sono intestati all’ Associazione Azione per un Mondo Unito-Onlus. Per i cittadini italiani, ricordiamo che i contributi versati all’Amu godono dei benefici fiscali previsti dalla nuova legge. Importante: indicare sempre la causale del versamento Emergenza Pakistan.

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