Il villaggio fantastico di Nekrosius

Il lavoro creativo di Eimuntas Nekrosius – dagli esiti formali d’imprevedibile forza e fascino – nasce da un’idea semplice, una sensazione, un impulso, comunicati agli attori. Fino a provocare un’azione, un gesto, una successione di sequenze che generano altre immagini. Per parlare, quindi, di una sua messinscena occorrerebbe quasi esclusivamente descrivere, in quanto il regista lituano riesce, come pochi, a dare corpo ai versi di un testo, sia che tratti di Shakespeare o di Cechov; sia che affronti un autore sconosciuto (a noi) come il connazionale Kristijonas Doneilaitis del quale ha allestito, tratto da Le stagioni, il dittico Gioie di primavera e Ricchezze d’autunno. Ed è ancora teatro di stupori scenici, di poesia di materiali poveri: un teatro da vedere. In mancanza di una trama canonica, Nekrosius, tra assonanze e analogie, costruisce una sequenza di scene capaci di suscitare sentimenti e stati d’animo comuni ad ogni uomo. Scritto in esametri, questo poema della letteratura lituana della metà del Settecento dà voce ad una piccola comunità di contadini, al lavoro e ai riti della loro vita scandita dal ritmo delle stagioni. Evocando atmosfere bucoliche, pervase da una vena ironica, avvertiamo il risvegliarsi della natura. E che l’inverno stia per finire ce lo dice la luce riflessa da pezzi di vetro – il senso del gelo e del freddo -, che fa capolino sciogliendo il ghiaccio immaginario. Gli stessi vetri verranno poi limati ai bordi fin quando un ragazzo, con un balzo in alto, ne romperà un frammento sospeso ad una corda. La conseguente ferita alla testa verrà ricucita con del filo rosso sangue, trasmettendo una sensazione di dolore. Tra giochi infantili, grida e corse, la scena si anima man mano col cinguettio di uccelli ripreso dal fischiettare di un ragazzo rannicchiato a terra, intirizzito dal freddo e soccorso dal moltiplicarsi di fischietti suonati da un’innamorata. Si susseguono momenti di estro febbrile come il lavoro nei campi; il comporsi di una strampalata banda musicale senza suoni; l’attraversamento pauroso di un fiume con una tavola poggiata tra due sedie: una fatica che meriterà, all’arrivo, fumanti frittelle calde. Lo sferzare a terra di corde bagnate d’acqua, lanciate all’insù, evocherà un temporale. Ancora l’acqua – elemento, insieme al legno e alla terra, spesso presente – servirà ad inzuppare delle lenzuola con le quali verrà percosso allegramente un malcapitato. Ed è bellissima la scena della costruzione di una casa ad opera di un uomo su un’altalena a pancia in giù, al quale altri porgono via via dei mattoni mentre recita alcuni versi. Declamati in più momenti, essi non hanno però un riferimento diretto con le azioni, le quali, invece, sono rese pregnanti da una colonna sonora continua di musiche avvolgenti, miste a suoni di animali. Il secondo titolo si apre con un uomo in sella a un cavallo. Sulla scena fissa di covoni di grano collocati su una pedana sospesa, seguono i preparativi per un matrimonio, la festa, il taglio corale di pezzi di legno ridotti in asticelle e buttati in aria con un vibrante effetto di colore; quindi un balletto con delle sedie fatte cadere da ogni lato come spinte dal vento. La bellezza del linguaggio lirico e visionario di Nekrosius, ne fa un emozionante e universale affresco d’umanità, trasformandolo in una visione spirituale dell’esistenza.

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