Il valore (e i valori) del cinema

Con il suo cappello di paglia bianco a larghe falde a coprire una capigliatura ormai irrimediabilmente candida, sembra uscire dritto dritto da un film degli anni Cinquanta. “Vai a destra, prendi il viale a sinistra, fermati”: il tour per Bel Air e Hollywood sotto la sua guida è di quelli che non si dimenticano. Una ricca villa dai mattoni rossi e dalle imposte bianche: “Qui abitava Bette Davis. Mia zia era cuoca in questa casa, e così spesso mi portava con lei nella cucina, dietro quella finestrel- la laggiù. Io avevo cinque o sei anni e guardavo da dietro il vetro le star del cinema che entravano e uscivano. Poi, poco alla volta, mi sono fatto coraggio e ho cominciato a parlare con loro, a imparare come si fa il cinema”. Una collina, il regno di Charlie Chaplin. Ci fermiamo al n° 1934: “Qui visse finché non fu “esiliato” dall’industria cinematografica, cui aveva cominciato a fare ombra. Qui salivo con grande apprensione, perché era la villa del migliore, del mio idolo”. E poi, in basso, dietroHollywood Boulevard, i suoi studi. Qui il suo sguardo si vela. Un’altra villa, vi abitava Fred Astaire. “Qui ho fatto il giardiniere per due anni. È lì che un produttore mi ha proposto di cominciare a lavorare per lui. Pochi soldi, in ogni caso”. Di fronte al marciapiede dove sono impresse nel cemento le impronte delle mani di Marilyn, di Harrison, di Liz… c’è un hotel, il Roosevelt: “Qui il mio produttore voleva che, per un film con Burt Lancaster, lavorassi in una stanza d’albergo, per evitare di affittare un appartamento. Ma io e i miei colleghi preferimmo lavorare nel camerino della truccatrice”. Ron Austin, la mia guida, sceneggiatore, tra gli anni Sessanta e Ottanta lavorava con i migliori. Poi ha voluto dedicarsi all’insegnamento dell’arte dello script writing, cioè della scrittura per i film. La città del cinema Hollywood affascina ancora. Nonostante le critiche cui è ciclicamente sot- toposta e i tentativi di creare dei poli alternativi di produzione, continua ad essere a pieno titolo la capitale dell’industria cinematografica e anche della fiction televisiva. La bellezza di 400 mila persone lavorano direttamente per essa, senza contare l’indotto, incalcolabile in questa Los Angeles immensa e inafferrabile, perché priva di un centro storico o comunque di un centro unico di riferimento. Beverly Hills, Hollywood, West Hollywood, Santa Monica, Down town… Ogni città nella città ha il suo centro vitale, solitamente le strada del commercio, e anche il suo modo di vivere. Unico apparente elemento unificante, nonostante le notevoli differenze di livello sociale ed economico, è la febbre del consumo. Sembra di vivere in un set. L’obesità imperante nella East Coast qui è più contenuta, e la gente, soprattutto i giovani, sembrano fare attenzione alla linea, all’apparenza. Ecco, l’apparire: verrebbe da dirsi che a LA (universalmente “èl-éi”) sia un verbo che rappresenta l’imperativo categorico della gente. Sì e no. Lo noto conversando con alcuni operatori del mondo del cinema – attori, registi, produttori, sceneggiatori… – in una meravigliosa villa sulla costa di Malibù, al nord di Los Angeles, che fu di Greta Garbo. Sulla terrazza a picco sulle onde – qualche delfino si diverte a saltare nell’acqua – mi rendo conto che questa gente non è poi così schiava dell’apparire come si vorrebbe tanto spesso far credere, secondo gli stereotipi imperanti. In realtà si pone domande sincere, soprattutto dopo la tragedia delle Twins; capisce che qualche cosa del giocattolo si è rotto, che si devono proporre valori positivi, pena una grande catastrofe ancora imprevedibile. Sono parole che sembrerebbero avere poco a che fare con l’ambiente tutto glamour nel quale mi trovo a conversare. Eppure l’industria del cinema sembra essersi accorta che la rotta deve essere corretta. O, perlomeno, un buon numero dei suoi operatori. King Kong e Mickey Mouse L’industria, cioè. Universal City: come dice la toponomastica, una città. Migliaia di ettari di terreno schiacciati tra tre autostrade a cinque corsie, una città per turisti (45 dollari, 47 euro, 90 mila lire l’entrata) ma non solo. Qui si fa cinema sul serio, negli studi della Universal (David Spielberg per intenderci) rigorosamente vietati al pubblico. Ma gli immensi manifesti che li ricoprono annunciano e fanno sognare: Hulk, The Red Dragon, Blue Crush… Il turista però, se vede relegato il futuro nel mondo dell’immaginario, può consolarsi rivivendo il passato a bordo del trenino che lo porta a scivolare nelle vie dedicate ai grandi del cinema tra i tanti studi e tra i set dei successi più straordinari, da King Kong (in… carne e ossa), al dinosauro di Jurassic Park. C’è soprattutto quell’aria di cartapesta così affascinante da sembrarci ormai vera. Un’incredibile divertimentificio. Chissà cosa direbbe Pascal, fustigatore per eccellenza del divertissement… Ai Disney studios, invece, ci si incontra col cinema vero, quello di cellulosa. Accanto alla casetta di legno dove il mitico Walt cominciò la sua attività, si entra in un immenso studio, più grande del più grande capannone di Cinecittà, che è il più grande d’Europa. Qui è uno dei tanti. Non più cartapesta ma polistirolo, per costruire un’enorme caverna e un’immensa piscina dove si girerà il prossimo film: tutto è top secret. Poi un vero set, quello di una delle serie televisive più seguite anche da noi in Italia. Il personale è decuplicato rispetto alle nostre povere italiche produzioni. Ma trenta, quaranta televisioni nel mondo hanno già comprato la serie, e quindi si può spendere… Polvere di stelle (e di storia) Questi studi danno l’idea di cosa sia l’epopea di Hollywood. Una storia marcata sin dagli inizi dalla presenza del genio ebraico – gli inventori di Hollywood, lo sappiamo, erano ebrei -, e dalla continua lotta tra l’industria e gli artisti indipendenti. Sin dal tempo dei vari Griffith, Chaplin, Wells, tutti prima o poi cacciati da Hollywood perché non si sottomettevano alle rigide regole del business. L’esilio era avvolto dalla perenne nostalgia della socializzazione estrema di Hollywood, che aveva il suo naturale momento di espressione nei cocktail: ovunque, comunque, a qualsiasi ora. La belle époque – pur tra alti e bassi – durò fino ai Settanta, quando le multinazionali comprarono tutti gli studi e la proprietà delle major si spostò in Giappone, in Francia, a New York. Solo il business del crimine restò locale… Poco dopo ecco di nuovo l’indipendenza, con gli Scorsese, i Coppola, gli Allen. Era l’epoca che risentiva della morte dei Kennedy, di Luther King, del Watergate. I film dei Settanta riflettevano proprio questa difficoltà interna americana. Erano film di travaglio. Poi, negli Ottanta, l’industria ha ripreso in mano studi e business. Era il tempo dello Spielberg nascente e di Ronald Reagan: si voleva tornare all’epoca d’oro. Miliardi di dollari, a fiumi. Poi, come un pendolo, nei Novanta la spinta indipendentista ha ripreso fiato, rappresentata in qualche modo dai successi dalla Miramax, quella de La vita è bella per intenderci. Ma, passati pochi anni, ecco che la Disney acquista proprio la Miramax, e di nuovo il business prevale. “Ora la tecnologia – spiega Ron Austin – sta cambiando per l’ennesima volta le carte in tavola, così come la tragedia dell’11 settembre. C’è una esigenza di spiritualità assolutamente inedita, anche se per canalizzarla e portarla sugli schermi servono soldi. Comunque sono ottimista, perché vedo tanto talento in giro, giovani intraprendenti e profondi. Io stesso ne sto mettendo insieme una dozzina, per produrre qualcosa senza prevaricazioni e con coesione. Un gruppo interconfessionale e interreligioso. Sono ragazzi promettenti, che non vogliono farsi le scarpe reciprocamente, che non disdegnano di parlare di religione e della necessità di una coerenza tra valori professati e attività professionali. Con loro si riesce a parlare persino di… amore reciproco. E, per quanto possibile, a viverlo”. Beverly Hills, una delle città più sfrontatamente ricche al mondo, incastonata tra Santa Monica, Hollywood e Los Angeles. Qui la “Academy of motion picture arts and sciences”, più nota semplicemente come “l’Academy”, cioè l’associazione che discerne i premi Oscar, ha realizzato una vera e propria istituzione culturale, che raccoglie tutto quanto riguarda il cinema hollywoodiano: tutto salvo… le pellicole. Ci sono libri ormai introvabili, sceneggiature originali che portano le tracce della censura maccartista, enormi libri paga della Metro Goldwyn Mayer vergati a pennino, biglietti dell’autobus su cui qualche grande del cinema ha scarabocchiato le idee per un film di successo, modelli di vestiti realizzati per i primi film muti, fotografie mai viste in giro… L’istituzione vive con la donazione di attori, registi, produttori: una scala è stata donata da Kirk Douglas, la hall d’entrata da Bob Hope, una vetrata da Liz Taylor. Qui si scopre non una macchina da soldi o una semplice tecnica di divertimento, ma una vera e propria arte iniziata solo nel XX secolo, ma alla quale tanta gente ha già dedicato la sua vita. La passione per il cinema e la fiction è la stessa che trovo nel parlare e nell’agire di Sunta Izzicupo, italoamericana di terza generazione, per 13 anni vicedirettrice della Cbs, con la delega per la produzione di film. Da qualche mese ha deciso di “reinventarsi”, come dicono (e fanno) gli americani, lasciando la grande rete televisiva, per avere avvertito qualche difficoltà nel poter rimanere coerente con le sue idee. Una donna di coraggio. Dopo aver costatato come il cinema abbia conservato un’aura artistica ben superiore a quella del piccolo schermo (senza il quale però ora non potrebbe più vivere), ne tesse un moderato elogio: permette l’integrazione razziale e etnica; ha la possibilità di scaricare le tensioni sociali e le paure collettive; evita un’eccessiva segmentazione della società… Poi aggiunge: “Il business non ha sempre il sopravvento. Spesso in effetti consente di rappresentare i valori umani più validi, quelli positivi, ma in serie televisive e in programmi che l’audience ha già approvato. La mia idea, costruita in tanti anni di lavoro televisivo, è che la gente vuole vedere le persone nella loro veste migliore, perché così il piccolo schermo serve ai telespettatori come ispirazione per far meglio. Certo, dopo l’11 settembre c’è una forte richiesta di film che rappresentano eroi esasperatamente patriottici. Ma anche il patriottismo sta moderandosi, lasciando spazio alla coscienza che qualcosa dobbiamo cambiare anche nella nostra vita di americani. Tutto ciò ha portato un’inversione di tendenza: si stava scivolando verso prodotti edgy, cioè al di là dei limiti (violenza, comportamenti devianti, scandalismo). Ora si sta più in famiglia, e quindi il target diventano proprio le famiglie complete. Per questo ora si propongono da una parte film in cui si riflette la nostra ansietà (film sul terrorismo, ad esempio), e dall’altra prodotti in cui si vuole far prevalere l’emozione, con lo scopo di riavvicinare la gente”. Globalizzazione e fraternità All’Istituto italiano di cultura, il direttore Guido Fink, professore all’università di Firenze e tra i maggiori esperti italiani di cinema americano, ha accolto il 25 agosto un colloquio sul ruolo che i media possono avere nel favorire la giustizia nell’epoca della globalizzazione. “Un tema come questo – ha detto – ha il pregio di svelare qualcosa che è nel più profondo dell’uomo: il bisogno di tenere conto dell’altro, di capire che dobbiamo convivere il meglio possibile. Insieme, al di là della cultura, della religione e della appartenenza politica”. Un centinaio di registi, produttori, sceneggiatori e attori presenziano, mentre il microfono è nelle mani dell’americano Ed Murray, presidente della tv Faith and values, del produttore australiano Mark Ruse, della sceneggiatrice canadese Laurie H. Hutzler e del regista italiano Marco Aleotti, da tempo a Porta a porta. Convergono su un’idea: la fratellanza universale è una pista che può permettere che i valori umani di giustizia, rispetto, tolleranza e sincerità siano diffusi nella società dai media. Un’idea semplice, e nello stesso tempo improrogabile. Commenta Margaret Loesch, già presidente e Chief Executive Office della Fox Kids Network Worldwide, la tv del magnate australiano Murdoch, e presidente dell’Hallmark Channel: “Finora quello tra i valori umani (e perciò anche cristiani) di cui si è parlato di più è stata la tolleranza. Ma non basta più. Bisogna riuscire a portare ben altri valori nei media. Non mi rassegnerò finché non riuscirò a produrre film e sceneggiati che potrò vedere tranquillamente seduta accanto a mio figlio, che ora ha 14 anni. Non dispero, perché la mia generazione ormai non può più produrre senza interrogarsi sull’impatto che tali prodotti possono avere sui più deboli”. Tornando a Roma leggo una dichiarazione di Dustin Hoffman: “Dopo l’11 settembre il cinema deve dare un contributo diverso. Torno con un film serio sulla famiglia; il mondo aspetta da Hollywood storie profonde”.

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