Il Ticino dice no ai lavoratori frontalieri. Perché?

Le ragioni del voto, che penalizza anche i pendolari italiani, vanno ricondotte alle disfunzioni del mercato del lavoro e alla crisi economica che comincia a farsi sentire anche in questo cantone svizzero
Il confine tra Italia e Svizzera a Ponte Chiasso. Foto di Matteo Bazzi per Ansa

La votazione nel Cantone Ticino denominata “Prima i nostri” del 25 settembre ha suscitato un grande scalpore. Ci sono tuttavia una serie di considerazioni che purtroppo non sono emerse nelle differenti prese di posizione. La maggior parte delle valutazioni sul risultato di questa votazione non ha preso in considerazione un elemento determinante: le cause che portano il Cantone Ticino, da qualche anno a questa parte, a sostenere posizioni di protezione del mercato del lavoro o altrimenti detto di chiusura nei confronti della libera circolazione delle persone. E questo sia all’esterno che all’interno dei confini nazionali.

 

Il Ticino è, sì, parte della Svizzera, ma da questa si differenzia per diverse peculiarità. Per esempio, la sua struttura demografica mostra un alto tasso di persone anziane, fatto questo che ha ripercussioni sui costi della salute. Il sistema fiscale del Cantone Ticino è fortemente progressivo e con una serie di agevolazioni e sostegni che lo mettono tra i primi in termini di politiche famigliari. Ma lo stesso Ticino è una regione con i salari tra i più bassi: a livello nazionale il salario medio è inferiore del 16-20%, a fronte di differenze di prezzi stimate in circa un 6%. Ma forse la caratteristica principale e più influente è la collocazione geografica: essere stati per molto tempo “isolati” dal resto della Svizzera da una parte, e dall’altra invece essere stati in stretta relazione con l’Italia, ha inciso sulla storia del Cantone come pure sul suo sviluppo economico.

 

La possibilità di poter usufruire di un bacino di manodopera quasi illimitato, competente, qualificato e ad un prezzo minore, è stato per molto tempo un vantaggio competitivo per l’economia cantonale. Tuttavia, questa possibilità ha fatto sì che la struttura economica si adagiasse su logiche di produzioni industriali, e in seguito di servizi, a basso valore aggiunto e quindi, a bassa retribuzione.

 

Come collocare tutto questo con la votazione di qualche giorno fa? Innanzitutto, sarebbe opportuno ritenere il voto di domenica un voto non contro i frontalieri, né contro gli stranieri: il voto di domenica è un voto contro un mercato del lavoro che parrebbe andare alla deriva. Chi ha messo in evidenza il buono stato di salute del lavoro ticinese, citando il dato del tasso di disoccupazione al 3%, ha dimenticato di dire che questo valore è un dato calcolato a livello nazionale e che quello paragonabile a livello internazionale si situa al 6.2%, ben superiore alla media nazionale del 4% circa. Ma non solo.

 

Il voto di domenica rappresenta un malessere ben più profondo. Non si tratta “solo” di conteggiare le persone che non trovano un lavoro, bensì si tratta di andare più a fondo. Tra i giovani del Cantone prevale un senso di incertezza e di insicurezza sul loro futuro: diversi, e sempre più, finita la loro formazione sono obbligati a trasferirsi oltre il Gottardo per trovare un lavoro in linea con la loro formazione. I cinquantenni che vengono licenziati non riescono più a trovare un’occupazione. La pressione sui salari, che fino a qualche tempo fa era preoccupante “solo” per le fasce basse di reddito, adesso tocca anche i redditi medio-alti. Sempre più persone devono ricorrere al sostegno dello Stato sociale, che fortunatamente, ma non sappiamo ancora fino a quando, è molto buono. Precarietà, instabilità e nuove forme di lavori atipici mancano nella valutazione dello stato di salute del mercato del lavoro.

 

Tutto questo e tanto altro ancora sta alla base delle sempre più frequenti votazioni e dei relativi risultati sul tema del lavoro nel Cantone Ticino. Tutto questo e tanto altro ha fatto sì che, domenica scorsa, la maggioranza dei ticinesi abbia detto sì alla reintroduzione della clausola di preferenza indigena, che sancisce che a parità di qualifiche e competenze, bisognerebbe dare priorità ai lavoratori indigeni, svizzeri e stranieri (preferenza che è valida anche per S. Marino, detto per inciso).

 

Purtroppo quando la libera circolazione delle persone, che rimane un grande e fondamentale ideale, è divenuta realtà, il Cantone Ticino e le sue autorità non sono state in grado, oppure non hanno voluto, proteggere a sufficienza un equilibrio sano tra lavoratori indigeni e lavoratori non residenti. La concorrenza senza regole che si è venuta a creare per poter realizzare quello che dovrebbe essere un diritto di tutti, lavorare e vivere dignitosamente con il proprio salario, sta mietendo la sua prima vittima eccellente: quella libertà tanto cercata e osannata.    

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons