Il teatro della vita

Rembrandt
Mi giunge un libro della grande scrittrice Elena Bono, due azioni teatrali in 112 pagine (editore Le Mani), ed ecco che si ripete l’incantesimo degli altri suoi libri: che non inventano, non affabulano, non ragionano su qualcosa, ma evocano la vita, facendo ingiallire istantaneamente le chiacchiere, anche letterarie, da cui siamo subissati e asfissiati. La storia è il movente del teatro come della narrativa della scrittrice, e sembra di sentire l’eco benigna di Manzoni: il vero per soggetto, l’utile per scopo, l’interessante per mezzo. In questo caso, la storia comunemente detta sacra: in Storia di un padre e di due figli la parabola evangelica del figlio scialacquatore e del padre misericordioso si dilata dal sacro, verrebbe da dire, al profano; ma è vero proprio il contrario, perché sono le ulteriori avventure e peripezie del volubile sognatore dal cuore inquieto a fare del profano – storie quotidiane, in fondo, di poveri esseri umani in cerca di luce – l’epifania del sacro, che non rimane stilizzato nella parabola ma scende liquido e pervasivo nelle avventure di ogni giorno, dove amore e morte si parificano infine come momenti necessari di una vicenda che si può definire qualsiasi, ma – ecco la magia della Bono – proprio per questo, perché può essere la storia di ciascuno, non banale ma esemplare, in quanto riguarda sempre figli di re (Dio), che lo sappiano o no. Mi viene, infatti, provocatoriamente da chiedermi: che differenza c’è tra 1’infinitamente squallido quotidiano del Grande fratello televisivo e queste mirabili semplicità feriali di Elena Bono? La differenza è una sola ma abissale: i poveri protagonisti-attori dell’interminabile (perché ciò che mai è veramente cominciato mai riesce a concludere) serial sono troppo evidentemente, per loro stessa volontà, o mancanza di volontà, poveri di dignità e moralmente depressi, tanto poco tra loro si stimano e stimano sé stessi. Gli umili di Elena Bono, evocati, come se si accendessero fari nascosti, sulla scena dei grandi eventi, vi partecipano con la serietà dei semplici e con il vivace desiderio di un cagnolino che scodinzola alla ciotola piena (il paragone non vuol essere né irriverente né diminutivo, al contrario), ovvero con mitezza e luminosità creaturale. Così il figlio prodigo nuovamente andatosene da casa deve viverne di avventure e umiliazioni per giungere finalmente alla perfetta statura dell’uomo che dà (il suo denaro e la vita a rapinatori assassini), invece di prendere come ha sempre fatto. E come in una tragedia greca, la parte sapienziale del coro è affidata ai bambini, che qua e là intervenendo la svolgono egregiamente, e per i quali l’autrice manifesta quasi un sesto senso di intuizione sapienziale. L’altra azione teatrale, Sera di Emmaus, contiene per neanche un centesimo tratti del meraviglioso racconto del Vangelo secondo Luca, per il resto, a partire da quello, innumerevoli variazioni-contrappunti come in una fuga di Bach o in un iridescente arcobaleno che può replicarsi indefinitamente. Dal riconoscere Cristo allo spezzare il pane gli umili che lo contornano passano a riconoscerlo nelle loro umbratili o concitate, liete o tetre, dolorose, sanguinose, comiche o tragicomiche occorrenze, zampillanti l’una dall’altra, spesso in rocambolesca e a loro stessi inafferrabile sequenza; e che però continuamente illimpidiscono fino a trasparenza nel confronto con Cristo: nel ricordo, nell’invocazione, nell’intervento intimo o esterno, ma dissimulato, anzi immedesimato (incarnato!), del Convitato di Emmaus, che impercettibilmente ma sicuramente li protegge, li aiuta, li accompagna, li rivela a sé stessi. Se di questa seconda azione dovessi trovare una battuta esemplare, la cui sostanza sia medesimamente valida per la prima, citerei questa di Gesù, che a una giovane da lui guarita e rimasta dolente di scoprire in sé, con gli occhi del Risorto, il suo peccato di ingratitudine alla vita, dice: Per prima cosa insegnerai ai tuoi figli a ringraziare il Padre mio del grande dono della vita e a vivere come un perenne atto di ringraziamento. È leggendo queste parole o molte altre come queste, che si accende la lampadina, e tanto più, spero, nello spettatore: Elena Bono, con le sue pazienti e sicure antenne di rabdomante dell’attualità – sì, perché il grande scrittore opera reagendo proprio ad essa, qualunque sia il suo letterale soggetto, antichissimo o modernissimo -, mette allo scoperto in due parole o battute teatrali qual è, esattamente, la grande malattia del nostro tempo, quella che avvelena la fonte e dalla quale discendono tutte le altre, che lo si ammetta o no: l’ingratitudine alla vita e al suo autore; che solo un atto di umiltà profonda e radicale – come, inconsciamente, lo scodinzolare di un cagnolino – può guarire.

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