Il teatro che ci assomiglia

Puntuale, solare, fiera. Il suo camerino è una festa di colori, stoffe e biglietti: un allegro disordine che sa di debutto. Tra poco il sipario si alzerà. E, ancora una volta, prenderà forma una magia che la vede protagonista. Una vita dedicata al teatro. Ma come riesci a mantenere la stessa passione per ciò che fai? Ci si riesce perché il materiale su cui si lavora sono le parole e i pensieri più belli che l’umanità ci ha lasciato. Il nostro è un privilegio per crescere ogni volta. Ecco perché il teatro è uno dei pochi ambienti in cui si sta a tavola insieme la sera dai diciotto ai novant’anni: è un evento vivo e trasversale alle classi sociali, all’età, e per questo sempre diverso e fautore di nuove emozioni. Quanto conta la dimensione del gioco in questo lavoro? Tantissimo. Giorgio Strehler, che mi ha insegnato tutto, mi ha trasmesso la passione di non lasciare mai niente al caso. Con lui ho imparato a studiare a fondo un autore, per capire poi ogni passaggio di un suo testo; ma anche a lavorare su sé stessi, con i propri limiti, i propri dolori, per riuscire a far prendere il largo alla propria creatività, lasciandosi andare, in palcoscenico, ad un vero gioco delle emozioni che non si ripete altrove. Hai sempre lavorato da quando avevi quindici anni, ma non hai rinunciato alla maternità. Tutti e tre i miei figli li ho fortemente voluti. La maternità mi ha arricchito come donna, e inevitabilmente mi ha fatto crescere come artista. Finché erano piccoli questo ha significato un’organizzazione familiare complicata e un dolore indicibile nel lasciarli ogni volta; ma, con tutti gli errori che posso aver commesso, mi pare di avercela fatta. In fondo, alla carriera forse avrei rinunciato, ai figli no. Hai un sogno nel cassetto, un progetto su Teresa d’Avila… Teresa d’Avila è un pozzo senza fondo. In vita ha avuto il coraggio e la pazienza della profezia: era una mistica, aveva chiaro cosa fosse l’amore di Dio, e per questo non amava le mezze misure. Non ho la pretesa di assomigliarle, non almeno in tutto, anche perché penso che il Divino debba avere molta pazienza con me. Ma quando prendo in mano i suoi materiali trovo sempre cose nuove che fanno bene alla mia spiri- tualità. Spero proprio di portarla presto in scena. S’è parlato di gioco, di maternità. Però, la tua vita è stata segnata anche da tanti dolori Gli eventi della nostra vita finiscono per diventare linfa per le cose nuove che ci devono accadere. Tutto quello che siamo e che soffriamo, anche ciò per cui gioiamo, finisce nel calderone che rimacina tutto, pure la nostra capacità di creare il nuovo, di essere la provvidenza di noi stessi. La mia è stata una vita abbastanza fortunata, anche se, come tutti, non sempre ho navigato in acque tranquille. Imbarcarsi, cioè vivere, significa proprio questo: rischiare e prendere il largo, con le tempeste che inevitabilmente arrivano. Per me non sono mancate: prima fra tutti la morte di mio marito (il direttore della fotografia Cristiano Pogany, 1948-1999, ndr). Ma so che è tutto parte della vita, e il dolore lo riversi in amore per i figli, per il lavoro, per chi ti passa accanto, e avverti che, nonostante tutto, non puoi mollare. Per questo sento di non potermi lamentare, perché la mia vita, in fin dei conti, mi assomiglia: niente è gratis, però poi arrivo alla fine e dico: mi piacciono i miei figli, gli amici, il mestiere che faccio, le opportunità che ancora ho di vivere, sono contenta di quello che ero e che sono diventata. Capisco allora che dobbiamo sempre ringraziare, se non fosse altro perché siamo ancora in piedi e in corsa dopo la bufera. Oggi è felice Pamela Villoresi? Felice è una parola grossa. Certo, bisogna aver raggiunto dentro una roba seria, nell’anima intendo. Io forse ancora non ci sono arrivata, per le distrazioni che sono tante. Ma le conquiste, piccole se vuoi, che faccio ogni giorno, mi avvicinano sempre più a questo traguardo, e quindi non mi lamento neanche qui. Ai miei figli dico sempre che più si cerca la strada che ci assomiglia e più l’impegno dev’essere grande. Là dove gli altri la sera si mettono davanti alla televisione in ciabatte, a chi vuole che la vita gli assomigli questo non è dato! Ma questa continua ricerca è tutta bella, perché è tutta vita, la vita che ci è stata donata. E abbiamo la grande libertà di non buttarla via. Per tornare all’inizio, direi che possiamo giocare, se lo vogliamo, fino alla fine. CHI È PAMELA VILLORESI Pamelina, quando leggi le mie poesie mi ricordo perché le ho scritte. Così Mario Luzi soleva dire all’amica Villoresi, durante i suoi recital. Bene si intendevano i due artisti toscani sulle cose da fare in poesia. Lei infatti nasce a Prato nel 1957. Debutta come attrice al Teatro Metastasio della sua città nel 1972 e dedica la maggior parte della sua carriera al palcoscenico. Lavora con Giorgio Strehler e con lui mette in scena spettacoli come Arlecchino servitore di due padroni, Il Campiello, Le Baruffe chiozzotte di Goldoni, Il Temporale di Strindberg, Minna von Barbhelm e L’Isola degli schiavi di Marivaux, ultima regia teatrale del maestro. Molti dei suoi personaggi più recenti sono incentrati sulla mitologia greca al femminile: Antigone, Fedra, Clitennestra. Da anni lavora come regista teatrale e docente di corsi di teatro. Per l’Università di Firenze ha elaborato e realizzato un nuovo corso di laurea sui mestieri organizzativi dello spettacolo con sede a Prato. Ha ricevuto numerosissimi premi: dalla Targa Grolle d’oro (1976), al Biglietto d’oro di Taormina, al premio alla carriera ricevuto al Quirinale (1993). Nel 1999 è stata premiata con il Patriarca di Gerusalemme e Rugova per l’impegno per la pace e la formazione dei giovani.

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