Il tatuatore di Auschwitz

La singolare vicenda di Ludwig Eisenberg, detto Lale, e della sua storia d’amore bellissima nata nell’orribile campo di concentramento nazista
EPA/JIM HOLLANDER

Il compromesso è un male? Credo di no. E sono d’accordo con Amos Oz, lo scrittore israeliano scomparso recentemente, che scrive: «Sono un gran fautore del compromesso. So che questa parola gode di pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa, in particolare fra i giovani. Il compromesso è considerato come una mancanza d’integrità, di dirittura morale, di consistenza di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte». Il compromesso può essere indispensabile per non distruggersi e per ridurre al minimo i danni agli altri. Quando si può.

Un compromesso è stata la singolare vicenda di Ludwig Eisenberg, detto Lale, il tatuatore di Auschwitz. Un compromesso che ha generato una vita da fiaba, e una storia d’amore bellissima. Che Lale ha tenuto nascosta per 50 anni.

Poi ha scelto la scrittrice Heather Morris, non ebrea, per raccontarla a lei e al mondo. «Non è stato facile» afferma la biografa «ho dovuto guadagnare la sua fiducia. Ci sono voluti tre anni di lavoro». E di ricerche per verificare che il racconto corrispondesse alla realtà. Lale era sopravvissuto a tre anni di Auschwitz, e nonostante il tanto tempo passato era ancora agitato da paure e paranoie. Ma il lavoro combinato di Heather e Lale ha dato vita a un bel libro, di grande successo Il tatuatore di Auschwitz. Che narra una storia incredibile, quasi di leggerezza sullo sfondo dell’abisso. Lale è un giovane ebreo, intraprendente. Un tipo sveglio, solare, cha ama i piacere della vita.  Quando le ombre del nazismo coprono di spettri anche la sua Slovacchia, lui prima collabora con il partito nazionalista, l’unico che tenta di opporsi a Hitler, poi si offre volontario come lavoratore nei lager sperando così di salvare il resto della sua famiglia, i genitori e i fratelli.

Non si aspetta minimamente quello che lo attende. Il viaggio come bestie, chiusi in un vagone ferroviario, la fame, gli oltraggi. Poi l’arrivo, denudati, malmenati, tatuati, privati di tutto, i cani che ringhiano feroci, i soldati che urlano. Poi le baracche, il lavoro estenuante, il cibo scarso. Lale capisce al volo che per sopravvivere nell’inferno nel cui si è ficcato deve contare solo sulle sue forze: il suo carattere gioviale che gli permette di farsi diversi amici, il suo invincibile buonumore, la sua intuizione nel capire al volo le situazioni per cercare di volgerle a suo vantaggio, una buona dose di spregiudicatezza, ed anche sette lingue parlate assai bene. Poi… una buona dose di fortuna.

Dopo i primi tormentosi tempi nel lager, dopo aver quasi solcato la soglia della morte per tifo, riprendendosi quasi miracolosamente, Lale viene scelto come assistente del tatuatore del campo di concentramento. È sveglio. Impara in fretta, si guadagna la fiducia delle guardie, diventa capo tatuatore. I deportati arrivano da lui con un biglietto in mano. Sul quale ci sono alcune cifre, un numero che prende il posto del nome, che intende svuotare di identità e dignità il detenuto. Lale incide con gli aghi e l’inchiostro quel numero di matricola sull’avambraccio sinistro dei deportati. Sa che è un lavoro infame, marchiare come schiavi o animali da macello i suoi fratelli e sorelle di religione, gli zingari, i prigionieri politici. Ma in quell’inferno ci sono poche scelte, e pochi compromessi, quando si riescono a fare. Lale cerca di infliggere meno dolore possibile, soprattutto alle donne, quando tatua il numero nella pelle. A volte riesce a sussurrare «scusa» senza essere udito dall’SS che lo piantona.

Un giorno alza lo sguardo su una giovane donna che sta tatuando. Un colpo di fulmine. «È lei!» grida il suo cuore. Lei, una sconosciuta. Ma il suo cuore lo sa. È l’amore della sua vita. Lale si dà da fare nel campo. Sfrutta quel po’ di privilegio e di libertà di movimento che gli concede il suo ruolo, e con una certa sfrontatezza, facendosi aiutare da amici e amiche, riesce a contrabbandare le pietre preziose e il denaro sottratti ai deportati, per ricevere viveri e medicine che distribuisce fra quelli che stanno nelle baracche. È scoperto dalle SS. Picchiato a morte… o quasi. Ma anche in quella occasione riesce a non morire. E a tirarsi su. Intanto nel tetro squallore del campo, tra i morti uccisi nelle camere a gas e i terribili esperimenti del dottor Mengele, si dischiude la sua storia d’amore con Gita. Incontri rari, pericolosi. Si incontrano quando possono, quando riescono. Ma non mollano. Tenace come la morte è l’amore, recita la Bibbia. L’amore anima di forza Gita e Lale. Riescono a resistere tutti e due. Malconci ma vivi. Poi il campo è evacuato con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa. Le strade di Gita e Lale si dividono. Persi per sempre? Non sanno nulla l’uno dell’altro. Solo il nome. Ma Lale non molla.

Aiutato dalla fortuna, o dal vero amore che mai è cieco, incontra nuovamente Gita. Si sposano, cambiano il loro cognome in Sokolov, emigrano in Australia, hanno un figlio. E vivono una vita felice, come la vita concede ad alcuni. Con nel cuore però quei terribili ricordi.

Lale non si è mai sentito o considerato un collaboratore. Sa che ha fatto quello che ha potuto, per sopravvivere lui e aiutare come poteva gli altri, cercando di non danneggiare alcuno. Ma per proteggere contro ogni possibile attacco la moglie Gita solo nel 2009, dopo la morte di lei, apre il suo cuore e i meandri della sua memoria per raccontare la sua incredibile vicenda. Quasi una fiaba, di cui lui è il giovane eroe, un po’ briccone, ma generoso e devoto nei sentimenti. E intorno alla storia d’amore di Lale e Gita il baratro infernale dei campi di sterminio. Anche questo significa ricordare. Celebrare quelle volte – poche purtroppo – in cui l’amore e la forza d’animo hanno potuto sconfiggere l’orrore.

 

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