Il Sudafrica continua a denunciare Israele

Il Sudafrica interpreta in realtà la denuncia del Sud del mondo contro "presunti" criteri occidentali di superiorità morale. È la messa in discussione dell’ordine internazionale instaurato dal più potente alleato di Israele, gli Stati Uniti
La bandiera del Sudafrica sventola durante una manifestazione per la Palestina. ANSA EPA/Robert Ghement

La soap opera Sudafrica/Israele è lungi dall’essere finita con la denuncia alla Corte internazionale di Giustizia e il pronunciamento della Corte a fine gennaio.

Ricordiamo che il Sudafrica si era rivolto alla Corte Internazionale di Giustizia, chiedendo in particolare che Tel Aviv fosse condannata a motivo delle violazioni della Convenzione internazionale sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio. Convenzione firmata nel 1948 anche da Israele.

A fine gennaio la Corte dell’Aja ha ordinato ad Israele di implementare le misure affinché vengano impediti atti di genocidio e sia assicurata la tutela della situazione umanitaria della popolazione palestinese all’interno della Striscia di Gaza, dove Israele sta conducendo le operazioni militari contro Hamas.

Ma il Sudafrica insiste: bisogna fermare Israele nella sua escalation contro i palestinesi di Gaza.

Considerando l’attacco massiccio e il costo in termini di vite umane della risposta militare israeliana ai massacri commessi da Hamas il 7 ottobre, il Sudafrica (che ha peraltro condannato l’attacco di Hamas) si fa portavoce internazionale di un appello che va ben oltre una procedura legale.

L’iniziativa di Pretoria ha infatti innescato il consenso di molti Paesi (più di 50, tra mondo arabo e Africa) con una ricaduta che potrebbe minare gli attuali equilibri di potere in Medio Oriente e non solo.

Non si tratterebbe infatti di una denuncia soltanto sudafricana, ma si configura come una denuncia del Sud del mondo contro “presunti” criteri occidentali di superiorità morale. È un’abbastanza evidente messa in discussione dell’ordine internazionale instaurato dal più potente alleato di Israele, gli Stati Uniti.

Mercoledì 6 marzo, la ministra sudafricana delle Relazioni internazionali, Naledi Pandor, e il suo omologo danese, Lars Lökke Rasmussen, si sono incontrati per cercare soluzioni per far giungere aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. I due ministri hanno studiato anche la possibilità di effettuare lanci aerei di forniture alimentari, ma questa opzione resta comunque insufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione palestinese.

Lars Lökke Rasmussen ha ribadito il suo appello per un cessate il fuoco umanitario a Gaza: «Da un punto di vista politico e umano, possiamo facilmente dire che questa situazione deve cambiare. Per questo sosteniamo la richiesta di un cessate il fuoco umanitario reciproco, che consentirà agli aiuti umanitari e a tutti i camion di entrare a Gaza», ha insistito il ministro degli Esteri danese.

Le Nazioni Unite stimano che più di 576 mila persone a Gaza, un quarto della popolazione, si trovi priva dei più basilari mezzi di sussistenza.

Alcuni tra i media internazionali più schierati sostengono che il governo del Sudafrica, prevalentemente sostenuto dall’Anc (African National Congress, il partito di maggioranza), sia in crisi e rischi di perdere le elezioni del prossimo aprile: da qui l’improvviso fervore internazionale per la causa palestinese. Ma il Paese africano, che ha sofferto la segregazione, la discriminazione, l’esclusione e la lotta armata contro gli occupanti inglesi e boeri sa di cosa sta parlando. Infatti, fin dallo scorso novembre il Parlamento sudafricano ha votato, con una maggioranza di 248 voti favorevoli e 91 contrari, una mozione che chiedeva la chiusura dell’ambasciata israeliana a Pretoria.

Con la denuncia del Sudafrica contro Israele per genocidio, molti Paesi del Sud del mondo contestano una visione dominata dalla memoria della Shoah e le oppongono quella della colonizzazione.

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