Il sorriso di Cabiria

Un'attenta analisi dei film di Fellini restituisce un inteerssante ed aritoclato quadro del suo rapporto con Dio e del suo modo di vivere la spiritualità
Una scena dal film "La strada" (foto ANSA)

Che Fellini sia stato un grande regista è cosa risaputa. Meno sviscerato è il suo rapporto con Dio, che però c’è stato, ed è entrato nei suoi film. Un rapporto fatto di dubbi, espressi, per esempio, mediante una battuta de La dolce vita: «Chi cerca Dio lo trova dovunque», dice una ragazza durante la sequenza del finto miracolo, come a dire di un bisogno naturale di Dio insito nell’uomo, a prescindere dalla sua esistenza. Eppure Fellini sentiva Dio, lo cercava con la sua personale spiritualità. A Sergio Zavoli spiegò: «Ho bisogno di credere. É un bisogno infantile di sentirmi protetto, giudicato benevolmente, capito, perdonato».

Veniva da una famiglia cattolica, sua madre lo avrebbe voluto prete, e soffrì quando La dolce vita fu attaccato dai cattolici. Che sbagliarono, perché quel film del 1960, come scrisse Pasolini, «parla del rapporto tra peccato e innocenza» e secondo il poeta eravamo «davanti al più alto e assoluto prodotto del cattolicesimo di quegli anni». Uno dei pochi cattolici che difesero il film, il gesuita Taddei, parlò di «grande spiritualità cristiana» e di un film realizzato da un uomo «sulla via di un’importante maturazione spirituale». Oltre, molto tempo dopo, è andato il gesuita Padre Virgilio Fantuzzi, che di Fellini era amico: «Ogni opera di questo autore è animata dal soffio misterioso di un Dio nascosto».

Certo, Fellini, a differenza di Rossellini o Pasolini, non ha mai girato film totalmente a tema religioso, ma spesso le sue figure raccontano di una tensione latente, in qualche modo spaesata, ma chiara, verso Dio. Fosse anche una ricerca di purezza, di armonia e di pace interiore. Sempre Fantuzzi parla di Fellini come autore alla «ricerca dell’autentico attraverso l’umile». È come se il regista, spiega l’anziano sacerdote esperto di cinema, cercasse di raccontare «un riflesso di spiritualità in gente miserabile che cerca spiragli di luce nella sua vita».

Avviene con La strada, ad esempio, capolavoro del 1954 (nella foto), in cui una donna semplice, ingenua e stralunata (la tenerissima Gelsomina di Giulietta Masina), dotata però di un cuore puro che sa meravigliarsi per le cose del mondo, è capace, con il suo doloroso e apparentemente inutile passaggio sulla terra, di fecondare il cuore di un uomo rude e brutale come lo Zampanò di Anthony Queen, a sua volta prosciugato, probabilmente, dalle durezze del contesto in cui è cresciuto. Per questo motivo, La strada è piaciuto tanto a Papa Francesco, che lo ha definito «il film più bello e più francescano» che abbia mai visto. È il film di Fellini che il Pontefice ama di più, quello col quale si identifica maggiormente, per «un implicito riferimento a san Francesco». C’è un terzo personaggio, nella pellicola, che spiega la missione inconsapevole di Gelsomina per la redenzione di Zampanò: è il matto, un artista di strada libero e gioioso, innamorato della vita. «Non so a cosa serve questo sasso – spiega con dolcezza a Gelsomina – ma a qualcosa deve servire. Perché se è inutile, allora è inutile tutto, anche le stelle, anche tu. Invece anche tu servi a qualcosa». Lei lo ascolta e se ne innamora, con quel suo senso per le cose grandi: una grazia, in fondo, in mezzo alle miserie di una vita da ragazza abbandonata, regalata a un rozzo e solitario circense che gira in motoretta il freddo Appennino povero e contadino.

La grazia in mezzo alla miseria, la stessa che appartiene a un altro meraviglioso personaggio di Fellini, ancora una volta donato dal regista alla sua musa e moglie, Giulietta Masina, e da lei elevato a incanto: Cabiria, ragazza minuta e sfortunata, costretta a vivere vendendo il corpo per strada, eppure mai corrotta dalla sorte, intatta nel cuore e luminosa negli occhi, colma di fiducia verso il prossimo. Il film è Le notti di Cabiria, 1957, altro meritatissimo Oscar a Fellini e al Festival di Cannes di sessant’anni fa precisi, Palma d’oro, altrettanto meritata, alla piccola e gigante attrice italiana. C’è una sequenza, intorno alla metà del film, che racconta, senza bisogno di parole, il naturale slancio di Cabiria verso un Dio di cui sa poco. Mentre, di notte, si trascina per Caracalla in attesa di clienti, dal buio, tra gli alberi, sbuca una processione di fedeli in cammino, cantato, verso il Divino Amore. Cabiria ne rimane folgorata, e come ipnotizzata da quell’apparizione quasi magica, abbandona tutto e si lascia trasportare dal corteo, con un sorriso mezzo tonto e tanto felice spalancato sul viso. Fino a che la brusca frenata di un camion, e le parole del tizio che lo guida, la riconducono alla sua croce. Più tardi, un uomo in apparenza educato e gentile seduce Cabiria e le chiede di sposarlo. La convince a vendere la casetta che si è comprata con mille sacrifici per andare con lui a vivere altrove. Lei si fida, ci crede, sogna, ci casca. Lui la porta in un posto isolato, la picchia e le ruba i risparmi di una vita. Potrebbe morire, questa ragazza presa a calci dalla vita, potrebbe esplodere di rabbia e perdere ogni speranza, chiudersi in se stessa e trasformarsi in animale. Eppure sulla strada del ritorno, coi vestiti lacerati e il dolore ancora vivo addosso, intorno a Cabiria iniziano a danzare dei ragazzi, musicisti in un momento di festa. Suonano, le ronzano davanti e indietro sorridenti, e quel soffiare di vitalità diventa immediatamente contagioso per la donna. Cabiria sorride, sorride di nuovo, sorride con tutto il volto. Fellini chiude il film con questo primo piano: chi può togliere a Cabiria il dono di essere così portata per la vita?

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