Il sogno di dom Hèlder

Dom Hélder Câmara non è stato solo il vescovo dei poveri, il vescovo “rosso”, ma ha avuto un ruolo determinante nella Chiesa dell’America Latina e, in modo speciale, nel Concilio Vaticano II. Per il suo grande amore alla Chiesa e agli uomini.
Dom Hélder Câmara

Dopo la notizia ufficilale del via libera della Congregazione per la causa dei santi alla causa di canonizzazione del vescovo brasiliano "fratello dei poveri" riportiamo il contributo del padre missionario del Pime Costanzo Donegana già pubblicato sulla rivista Unità e Carismi (Città Nuova).

 

Accingendomi a scrivere questo articolo su dom Hélder Câmara, mi è venuto un  dubbio: capiranno questa figura e la problematica conciliare che l’ha visto protagonista coloro che non hanno vissuto all’epoca del Concilio o erano molto giovani in quegli anni? Una cosa è leggere i testi conciliari e altra aver seguito in contemporanea e con passione quell’avvenimento.

Senza sciogliere il dubbio, scrivo fidandomi di tutti i lettori, di tutte le età.

 

Andare

«Quando la tua barca

ti sembra prendere

le sembianze di una casa

comincia a mettere radici

nell’immobilità del molo,

va’ al largo!

È necessario salvare

a qualsiasi prezzo

lo spirito viaggiatore

della tua barca

e la tua anima di pellegrino».

 

Dom Hélder (così chiamavamo in Brasile mons.Helder Câmara) era anche poeta. Per questo ha sognato per tutta la vita e il Concilio Vaticano II, cui ha preso parte dall’inizio alla fine, è stato forse il suo sogno più alto: «Dovete conoscere com’è veramente il Concilio. Divino-umano. Condotto da Dio, realizzato da uomini».

Nel 1962, all’inizio del Concilio, dom Hélder, nato nel 1909 nel Nordest brasiliano, era da dieci anni vescovo ausiliare di Rio de Janeiro. Nel 1952, con l’appoggio dell’amico mons.Montini, aveva esercitato il ruolo determinante per la nascita della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB), di cui era divenuto il primo segretario. L’aveva aiutato molto l’esperienza precedente di vice-assistente nazionale dell’Azione Cattolica, riuscendo a renderla un potente strumento di aggregazione e di coordinamento e promovendo  allo stesso tempo settimane sociali sui grandi problemi nazionali. Tre anni dopo ha collaborato direttamente alla fondazione del CELAM (Consiglio Episcopale Latinoamericano).

Il giorno della sua ordinazione sacerdotale (15 agosto 1931), p.Hélder Câmara prese una decisione: «Da quel momento ho capito che, data la mia decisione di darmi senza riserve a Dio e al mio prossimo, mi era assolutamente necessario consacrare tempo e spazio a ascoltare il Signore e a pregare. Senza ciò, in pochissimo tempo, sarei rimasto vuoto, senza aver niente da offrire ai miei fratelli e al Signore. Da allora io approfitto di una facilità che il Signore mi dà: di svegliarmi e di potere, subito dopo, riaddormentarmi senza difficoltà. Quindi, ogni notte mi sveglio alle 2 e resto in preghiera per due ore». Oltre alla preghiera, leggeva e scriveva, prolungando quel tempo, se necessario.

Fu così che durante il Concilio, dom Hélder tutte le notti ha dattiloscritto circolari  (in tutto 297) indirizzate alla “Famiglia di São Joaquim”, amici e collaboratori, sacerdoti e laici, di Rio de Janeiro. Su queste preziose fonti mi sono basato per il presente articolo[1].

 

Protagonista

 

Dom Hélder si era prefisso una scelta durante il Concilio, come ha spiegato lui stesso: «Ciò che più mi rallegra è che quanto sto facendo per il Concilio e per la Chiesa non si vede. Non parlo in Aula, non faccio parte di nessuna commissione. Proprio nella mia linea, nella linea profonda della mia vocazione», l’”apostolato occulto”, come l’aveva definito: l’apostolato è solo di Dio, gli apostoli sono appena strumenti.

Eppure è stato, a detta di tutti gli esperti del Vaticano II, uno dei protagonisti in assoluto per «l’immenso lavoro di articolazione svolta da lui per tutta la durata del Concilio: partecipazione a gruppi di lavoro e commissioni conciliari; riunioni individuali con vescovi, cardinali e periti; preparazione di petizioni; conferenze e interviste; udienze papali; e le audacissime missive indirizzate al Santo Padre, Giovanni XXIII e l’amico Montini»[2]. E ancora dell’altro, come vedremo.

L’idea fondamentale che ha mosso la sua presenza e azione nel Concilio è stata la visione di una Chiesa veramente “cattolica”, dove tutti potessero partecipare alla sua riforma per metterla al servizio dei grandi problemi dell’umanità. Ricordiamo che dom Hélder era considerato il “vescovo comunista” in quel periodo in cui si stava preparando l’oscuro ventennio della dittatura militare (1964-1984). Una sua confessione ne definisce la figura e come era vista in circoli politici ed ecclesiastici: «Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista».

Con Giovanni XXIII egli sogna: «Dio ha ispirato a Giovanni l’idea che niente sarà in grado di attrarre quelli di fuori e quelli di dentro (ma che sono disincantati e indifferenti) quanto una chiesa aperta, fresca, coraggiosa. Una chiesa che faccia un bagno di Vangelo […]; che diventi serva invece di essere Signora, povera invece che ricca; che dialoghi, comprenda, stimoli invece di sospettare, perseguitare, condannare…e bruciare (proprio mettendo al rogo)».

E dom Hélder si è messo decisamente all’opera perché nel Vaticano II si realizzasse questo suo sogno, che era convinto essere quello di Cristo. È impressionante assistere al lavoro senza sosta, intelligente, impregnato di verità e di carità, che il bispinho (piccolo vescovo), come amava definirsi, ha realizzato. Ha aperto dialoghi e incontri con i vescovi (Frings, Lercaro, Pellegrino, Larrain, Etchegaray, Veuillot, Carlo Colombo…) e i teologi più eminenti (Congar, De Lubac, Küng, Rahner, Häring, Lebret…), con gli osservatori non cattolici, in maniera tutta particolare con Roger Schutz di Taizé («il santo più autentico che abbiamo in Basilica», afferma). Soprattutto ha creato un gruppo, da lui definito “Ecumenico”, che raccoglieva rappresentanti degli episcopati del mondo intero per un’esperienza affettiva ed effettiva di universalità. Esisteva  il pericolo che il Concilio restasse sotto il controllo della curia romana con schemi di discussione predefiniti e membri delle commissioni suggeriti dalla stessa. Ma fin dall’inizio i vescovi hanno reagito a tale imposizione muovendosi con totale libertà al punto che gli stessi osservatori delle chiese cristiane ne sono restati ammirati.  

Dom Hélder persegue decisamente il progetto di “universalizzare la missione della Chiesa” e include nell’Ecumenico la “Chiesa della diaspora”, cioè rappresentanti di tutti i continenti, delle Chiese orientali, della Cortina di ferro, della Scandinavia.

Alla fine del Concilio testimonierà: «La puntualità dei rappresentanti delle varie conferenze episcopali; l’interesse con cui vengono seguiti i differenti argomenti di discussione; le circostanze nelle  quali i moderatori e il Santo Padre stesso consultano l’Ecumenico; sono tutti segnali di come Dio abbia approvato l’idea di completare in modo informale e fraterno le riunioni ufficiali della Basilica».

Fra i suoi amici e collaboratori occupava il primo posto il cardinale  belga Leo Suenens[3], uno dei moderatori del Concilio con facilità di accesso al papa. Sono i “due cospiratori” (come definisce dom Hélder), si incontrano brevemente tutti i giorni nella basilica e ogni fine settimana nella residenza del cardinale. Sono loro alla testa dell’Ecumenico, per ispirarlo e per far giungere  in aula le  proposte del gruppo.

 

Chiesa povera e serva

 

Tutti i temi in discussione nelle quattro sessioni cui ha partecipato lo hanno visto attivamente impegnato. Per non enumerarli tutti, ne ricordiamo rapidamente alcuni sui quali ha dato il suo apporto in modo più decisivo. In primo luogo, la sua visione della Chiesa in una collegialità pienamente realizzata,  collegata fra l’altro con il problema ecumenico: «Nel caso dei vescovi, fino a quando non si vedrà con chiarezza che il papa non è un despota, fino a quando non si vedrà come agisce nel collegio episcopale, il riavvicinamento di molte famiglie cristiane incontrerà difficoltà insormontabili». Accanto alla gioia di sperimentare  nell’esercizio del Concilio che «non è il Papa da solo che decreta ciò che noi abbiamo studiato: decretiamo insieme!», esprimerà la sua amarezza nel vedere, per esempio, che il Sinodo dei vescovi, da lui strenuamente voluto, ha avuto un’applicazione riduttiva: «la convocazione viene fatta dal Papa come e quando interessa a lui […]; è appena un organo consultivo», per  concludere: «non mi sembra uno strumento autentico di piena collegialità».

Dom Hélder viene dal Brasile  e nel 1964 sarà nominato arcivescovo di Recife, immersa nel Nordest della povertà. Soffre nel vedere una Chiesa ricca, avviluppata in modi di vivere, che definisce senza peli sulla lingua «la pietra dello scandalo delle tradizioni del Vaticano». Denuncia una ricchezza che non riguarda solo i beni materiali, ma tutta una mentalità lontana dal Vangelo: «Riconosciamo che non è facile preparare lo schema XVII (sul rapporto fra Chiesa e mondo, n.d.r.) in un ambiente come questo, davanti a questo candelabro, di fronte a questi arazzi e cercando di discutere un argomento di oggi e di domani in una lingua dell’altro ieri». E ancora: «Nessuno può servire Dio e la ricchezza e noi siamo caduti nell’ingranaggio del denaro. È ovvio che si desidera che il denaro sia posto al servizio di Dio e renda possibile il bene. Ma ci riempiamo la bocca con la Provvidenza, e in realtà ci appoggiamo all’ingranaggio, all’Impero».

A questa Chiesa sotto vari aspetti lontana dall’ideale di Cristo propone che sia povera e serva dei poveri. Collabora in prima persona col sacerdote francese Paul Gauthier, fondatore de “I compagni e le compagne di Gesù carpentiere” per far entrare questo progetto nei lavori dell’assemblea attraverso il Gruppo della Povertà, la quale, secondo la felice formula di mons.Mercier, vescovo del Sahara, è un “male da combattere e uno spirito da conquistare”. Il gruppo non si ferma alla superficie del problema, ma va in profondità in una lettura globale del fenomeno nel contesto del mondo sottosviluppato. E’ portando avanti  questa tematica, dove  dom Hélder è assoluto protagonista, che il Concilio sfocerà nell’ultima sessione a discutere e approvare la costituzione pastorale su “La Chiesa nel mondo attuale”, Gaudium et Spes[4].

 

Profezia e carità

 

La linea condotta da dom Hélder ha trovato una forte e agguerrita opposizione nell’ala conservatrice dell’episcopato, sostenuta dalla maggioranza della Curia romana. «Elementi della curia non permettono il lavoro, sabotano tutto ciò che è nuovo e illuminato, conservano la situazione attuale», denuncia il bispinho, precisando che si tratta di una «minoranza risicata contro una maggioranza schiacciante di Vescovi in piena sintonia col Papa». Non accetta questa situazione, mosso dalla sua caratteristica più evidente: “Appartengo più alla famiglia dei profeti che a quella dei dottori”.

Ma la sua grandezza umana e cristiana è aver saputo coniugare due atteggiamenti in apparenza contraddittori: «La cosa più difficile, nel Concilio, consiste nel salvaguardare pienamente tanto la combattività (per scoprire le manovre e liberare il Santo Padre dalle insidie  e dalle sorprese sgradevoli) quanto la carità». E la vittoria sta nella carità: «Insisto nel chiedere che alla fine non ci siano né vincitori né vinti. Che i vescovi ne escano più fratelli fra loro! Che tutti – compresi periti, osservatori e uditori – ne usciamo più santi! Che a nessuno sia indifferente o inutile la permanenza a Roma!». Alla fine arriva a concludere: «Vince il compromesso che ci consegna testi mediocri, oppure vince la carità che ci impedisce gli eccessi e ci dà testi validi e accettati praticamente all’unanimità? Non esito a dire che è la seconda ipotesi. Alla fine ci abbiamo guadagnato tutti: quanta luce, quante angolazioni nuove, quanto arricchimento dottrinale, insieme all’esercizio della pazienza, dell’umiltà, dello spirito fraterno!».

Era il suo desiderio e proposito nella sua prima circolare: «Che ritorniamo più soprannaturali (cresciuti nella fede, nella speranza e nella carità!)».

 



[1]
In italiano si può trovare un’ampia sintesi delle lettere nel volume: HELDER CAMARA, Roma, due del mattino, Lettere dal Concilio Vaticano II, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2008. Un altro testo interessante, in portoghese: J.DE BROUCKER, As noites de um profeta: Dom Hélder Câmara no Vaticano II, Paulus, São Paulo, 2008.

Non ho messo le note delle citazioni di dom Helder per non appesantire il testo. Si trovano per lo più nei due libri citati.

[2]L.BETTAZZI, in Prefazione a Roma, due del mattino, o.c., p.26.

[3]Dom Helder rivela un particolare molto interessante, a riguardo del discorso di apertura del Concilio “pronunciato da Papa Giovanni, elaborato da padre Miguel (pseudonimo che Suenens usava spesso durante il Concilio, n.d.r.)”.

[4]Dom Helder, con un gruppo dei più significativi vescovi e teologi, ha affrontato in questo contesto il problema della limitazione delle  nascite, sostenendo la non infallibilità e quindi la riformabilità della Casti Connubii e, in generale, della dottrina tradizionale della Chiesa al riguardo: «Non possiamo continuare a creare degli imbarazzi terribili che non hanno ragione d’essere. A torturare le spose, a turbare la pace di tanti focolari». E non mancherà di esprimere tutta la sua delusione e amarezza alla notizia che Paolo VI ha sottratto la discussione del problema al Concilio, affidandolo a una pontificia commissione di periti.

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