Il silenzio di Beethoven

Il dramma della sordità, la solitudine, il rigore morale del geniale compositore di sonate e sinfonie. Da Città Nuova n. 2/2023

Una nuova traduzione degli scritti di Beethoven (Il testamento di Heiligenstadt e Quaderni di conversazione, a cura di Sandro Cappelletto, Einaudi 2022) riaccende l’attenzione sulla vicenda umana e la vita interiore del grande musicista viennese.

Questi scritti, per lo più già noti, hanno fatto conoscere al mondo la paradossale vicenda umana di Beethoven. A causa della sordità, era costretto a comunicare scrivendo su quaderni che portava sempre con sé; se ne conservano 139 e contengono pensieri, appunti, notizie, domande degli interlocutori, risposte di Beethoven ad argomenti vari.

Heiligenstadt, sobborgo di Vienna, era località di villeggiatura nei mesi estivi; qui Beethoven visse dall’aprile all’ottobre 1802, mentre faceva i conti con la progressiva sordità. Qui scrisse il cosiddetto testamento, una lettera ai fratelli, mai spedita, che narra il dramma vissuto per gran parte della vita: «O voi, uomini che mi reputate o definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto!». La sordità, nascosta fino ad allora, è la «causa segreta di ciò che mi fa apparire a voi così. […] Il mio cuore e il mio animo fin dall’infanzia erano inclini al delicato sentimento della benevolenza e sono sempre stato disposto a compiere azioni generose». È la sordità che obbliga «ad appartarsi, a trascorrere la vita in misantropica solitudine […] Come potevo, ahimè, confessare la debolezza di un senso che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri uomini e che in me un tempo raggiungeva un grado di perfezione massima, come pochi nella mia professione sicuramente posseggono». Beethoven rivela d’esser stato «sull’orlo della disperazione, e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto […] mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre».

Il testamento di Heiligenstadt rivela in quali sofferenze interiori, desolazione, amore all’arte, attaccamento alla vita e al mondo, Beethoven abbia concepito i suoi capolavori, patrimonio della musica europea. «Posso proprio dire di condurre una vita da derelitto; da quasi due anni evito ogni compagnia, perché non mi è possibile dire alla gente che sono sordo. Se esercitassi qualsiasi altra professione la cosa sarebbe più facile; ma con la mia professione questa è una condanna terribile!».

Beethoven suonava con una bacchetta stretta tra i denti e puntata contro lo “specchio” del pianoforte per percepire il suono dalle vibrazioni trasmesse dalla bacchetta. Era dotato della facoltà del cosiddetto orecchio interiore, riusciva cioè ad immaginare la musica senza suonarla, a scrivere un pezzo senza averlo suonato al piano; una dote che pochissimi musicisti hanno. È commovente pensare alle ultime quattro sonate per pianoforte, alle “variazioni Diabelli”, alla grandiosa nona sinfonia, agli ultimi quartetti d’archi, tenendo conto delle condizioni in cui sono state concepite e scritte.

C’era a Vienna il giovane Franz Schubert che coltivava il mito del grande maestro, ma non aveva il coraggio di incontrarlo. Dicono che sulla Ringstraße, dopo aver visto passare Beethoven durante le sue solitarie passeggiate, Schubert attraversasse di corsa il centro della città per appostarsi nel tratto opposto del Ring per veder ancora passare il suo mito che camminava borbottando.

Ad Ignaz Schuppanzig, violinista, Beethoven scriveva: «Credete che io pensi ad un dannato violino quando lo Spirito mi parla e scrivo ciò che mi detta? […] Perché scrivo? Non vi è nulla di più bello che avvicinarsi alla Divinità ed espanderne i raggi sulla razza umana».

Un enorme rigore morale ha guidato la vita di Beethoven, i rapporti con le persone, le forti amicizie, i duri scontri con editori e parenti, gli amori genuini, sfortunati e casti. Le gioie e i dolori di un’anima così delicata ispirano tutta la sua musica.

Secondo Rolland, Beethoven era un puro di anima: «Per i pensieri licenziosi provava un vero disgusto: sulla santità dell’amore professava idee del tutto intransigenti. Si dice perfino che non perdonasse a Mozart di aver profanato il suo genio», musicando libretti “licenziosi” come Don Giovanni e Così fan tutte.

Bettina Brentano, scrittrice, scriveva a Goethe: «Io credo di non ingannarmi dicendo che quest’uomo è molto più avanti della nostra civiltà moderna». E Schubert, in un affollato caffè di Vienna, additava Beethoven agli amici dicendo che quel genio possedeva segreti che il mondo non era ancora in grado di capire.

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