Il silenzio del cuore

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Quando uno nasce grande scrittore, e impara a diventare grande uomo perché cerca tutta la verità, ha un bel cominciare come giornalista, di regime sovietico e poi scrittore di parte (Il popolo è immortale, Per la giusta causa); sopravvengono presto i sospetti, le critiche e le condanne di ogni libertà anche solo teorica, filosofica; più di tutto la condanna a una solitudine crescente, compiuta e resa perfetta infine dalla malattia, il cancro che uccise Grossman cinquantanovenne (1905-1964); ma quella solitudine proprio nella sua perfezione distillò due libri immortali, il vasto Vita e destino, continuaziona-palinodia di Per la giusta causa, sull’epopea di Stalingrado, e Tutto scorre, certamente uno dei libri più puri e terribili del Novecento, il più puro e terribile, tra le narrazioni letterario-storiche, che io abbia letto, più di Una giornata di Ivan Denisovic e Arcipelago Gulag di Solgenitsin, più del Dottor Zivago di Pasternak e delle poesie di Mandel’stam, più delle memorie dai lager nazisti; perché vi affiorano indelebili due verità assolutamente ripugnanti in tutte le ideologie, di destra o sinistra (o altro): primo, che la rivoluzione totalitaria di Lenin invece di coniugare progresso e libertà, come bene e male era accaduto prima in Occidente, coniugò ferreamente (volontà di) progresso e schiavitù; secondo, che la rivoluzione totalitaria e antiumana di Lenin, peggio continuata da Stalin, fu il modello deforme a cui deformemente si ispirarono fascismo e poi nazismo: cioè il nazionalismo di stato. Infatti in Italia Tutto scorre (1971) fu il più possibile passato sotto silenzio, e Vita e destino (1984) ancor più: non facevano certo comodo alla sinistra, disorientavano la destra, e suonavano spiacevoli all’intera società, prima occupata nei narcisismi ideologici del post-’68 poi sgomentata – ma senza vera coscienza, senza vera cultura – dalla ferocia terroristica cresciutale in seno. Grossman aveva la tempra ebraica del profeta annunciatore di insostenibili verità, aveva il realismo spietato (con sé stesso) dello spirito biblico, aveva la libertà paurosa, ma non impaurita, dell’uomo senza più appartenenze – politiche, religiose, culturali – e, per suo merito, senza più niente da perdere. Il regime tentò di distruggergli l’opera da vivo e da morto, la provvidenza, o per chi non ci crede l’astuzia della storia, salvarono prodigiosamente i due capolavori; e oggi per chiunque abbia un’intelligenza non morta e una cultura non anestetizzata da ideologie vecchie e nuove, la sua pagina vive e vive proprio come paradossale testimonianza e prova di speranza e di fiducia, malgrado tutto, nella libertà dell’uomo che sia uomo, cioè diventi uomo nell’unico modo in cui si può diventarlo, controcorrente. Un uomo così dapprima veniva cancellato dalla vita, raggiungeva gli amici solamente nella memoria, poi perdeva il diritto di soggiornare anche nella memoria, si ritirava nel subcosciente e ne risorgeva ormai di rado. A leggere il capitolo 13° di Tutto scorre, libro postumo da cui ho tratto la precedente citazione, vengono i brividi e poi i capelli dritti sulla testa, perché il destino della giovane madre Mascia a cui vengono strappati prima il marito poi la figlioletta, è quello di milioni di donne scomparse nei lager delle purghe staliniane, scomparse da innocenti (per non avere denunciato il marito falsamente accusato!), fino a perdere la speranza, fino a trovare la libertà solo nella morte, con un’espressione di estasi infantile e di smarrimento (e mi viene in mente, come solo possibile commento all’altezza – le parole sarebbero intollerabili – l’ultimo movimento della nona sinfonia di G. Mahler, vertice del dolore trascritto in musica). Resta vero che, poiché al mondo non v’è fine per il quale si possa sacrificare la libertà dell’uomo (…) l’uomo è personalmente debitore a sé stesso della sozzura umana, via ogni alibi ideologico, e lo è soprattutto quando uccide, per sevizie e per fame, intere popolazioni (ma uomini donne bambini, da contare uno per uno) nell’intento criminale e colossalmente stupido di liberare l’uomo. I capitoli dal 22° al 26° di Tutto scorre sono il più puro libro di storia del Novecento. In pagine di Vita e destino, che ho antologizzato nel mio Novecento letterario italiano ed europeo, si dispiega una fenomenale analisi del Bene generale, anche quello cristiano, che, dice Grossman, ha prodotto guerre terrori orrori persecuzioni, ed è vero; si salva, è cioè veramente bene, solo la bontà, privata di un singolo individuo nei confronti di un suo simile, una bontà senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. Si potrebbe chiamarle una bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal Bene religioso o sociale. Grossman giunge ad affermare che essa è semplice come la vita. Perfino l’insegnamento di Cristo l’ha privata di forza: la sua forza è racchiusa nel silenzio del cuore umano. E qui si può restare interdetti e perplessi; ma anche qui, proprio qui Grossman ha una profondissima verità da dare, anche se non l’ha compresa o intuita fino in fondo lui stesso; e cioè che non solo ogni istituzione può irrigidire e contraffare la bontà, ma che le parole di Cristo non sono vere, salvifiche (e quindi integralmente buone) in sé stesse, ma solo in quanto validate nell’unica-ultima parola della Croce (dice san Paolo), là dove veramente la morte si fa per dono di sé semplice come la vita e per amore non istituzionale raggiunge, senza pretese, la profondità di ogni inferno, di, ogni silenzio del cuore umano.

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