Il significato del digiuno

Cosa significa digiunare? Nel giorno delle Ceneri, con il quale inizia la Quaresima, una riflessione di Dag Tessore, autore de Il digiuno, edito da Città Nuova.
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La pratica del digiuno (astenersi per un certo lasso di tempo più o meno lungo, da ogni alimento o da alcuni specifici alimenti) è tanto più universale e diffusa tra l’umanità, che difficilmente si troverebbe una religione o cultura, antica o moderna, in cui essa non esista.

La religione della Bibbia non fa eccezione. Nell’Antico Testamento il digiuno (in ebraico: som) è molto spesso evocato. Vediamo in quali contesti e con quale significato.

Non mangiare, anche solo per una giornata, è doloroso e faticoso; il digiuno è quindi inevitabilmente abbinato a una sensazione dolorosa. Non stupisce quindi che esso, nell’Antico Testamento, sia un’espressione di dolore e di sofferenza. Ad esempio, quando Elia profetizzò al malvagio re Acab tutte le sciagure che si sarebbero abbattute sulla sua perversa stirpe, il re, addolorato, «si stracciò le vesti, si coprì di sacco e digiunò» (1 Re 21,27; cf. anche Ne 1,4).

In particolare il digiuno, come in quasi tutte le religioni, così anche nella Bibbia, è segno di lutto: alla morte del re Saul, Davide e i suoi uomini fecero lutto, piansero e digiunarono fino alla sera su Saul e su Gionata suo figlio, sul popolo del Signore e sulla casa d’Israele, perché erano caduti di spada (2 Sam 1,12; cf. 2 Sam 3,35; Gdc 20,26); in occasione dei suoi funerali digiunarono per sette giorni (cf. 1 Sam 31, 13; 1Cr 10,12).

È naturale infatti che alla morte di una persona cara, chi è sopravvissuto senta in qualche modo che mettersi subito a mangiare e a godere dei piaceri del cibo sia per così dire “inopportuno”: la persona morta diventa come un richiamo a sospendere per un momento la consueta corsa della vita quotidiana e spinge a entrare in una dimensione diversa, più seria, più grave: nel momento in cui vedo in faccia la morte, mi sento chiamato a fermarmi per riflettere; inoltre il dolore per la morte della persona cara mi suggerisce di rimanere vicino al suo corpo e di esprimere il mio affetto e la mia tristezza con il pianto e trascurando per un poco i miei bisogni e i miei piaceri.

Se è spontaneo fare lutto e digiunare per la morte o la sofferenza di una persona amata, a maggior ragione Israele si sentiva di dover piangere e digiunare quando a soffrire era il più Amato, cioè Dio. Per questo motivo, ad esempio, Mosè, constatando i peccati del popolo e l’amore di Dio ferito e offeso, dice: «Per quaranta giorni e quaranta notti non mangiai pane e non bevvi acqua, a causa di tutti i peccati che avevate commesso facendo il male agli occhi del Signore per irritarlo» (Dt 9,18). Qui il digiuno significa: mentre gli altri mangiano e bevono e offendono Dio con i loro vari peccati, io invece Lo amo e Gli voglio stare vicino e voglio condividere con Lui la Sua amarezza e il Suo dolore. Così nell’antico Israele, fu istituito il digiuno del giorno dell’Espiazione, una volta all’anno, in cui tutto il popolo deve obbligatoriamente digiunare, in segno di dolore per le molte offese arrecate a Dio durante l’anno (cf Lv 23, 27-32)

[…] Notiamo a questo punto un altro aspetto importante del digiuno secondo la Bibbia, aspetto che, come gli altri, passerà naturalmente anche nel cristianesimo: il carattere pubblico e comunitario del digiuno. La comunità dei credenti infatti non è solo un insieme di individui, ma è un “corpo mistico”. Per questo motivo le feste ebraiche e cristiane sono per loro natura comunitarie. È l’intero popolo che fa festa al Signore esultando, è l’intero popolo che si umilia al suo cospetto mortificandosi e digiunando.

[…] Gesù, se da una parte si oppose fermamente alla distorsione dell’idea di digiuno, che ne faceva solamente un modo per ottenere da Dio dei favori, e alla riduzione del digiuno a una formalità religiosa avulsa da una sincera conversione del cuore, fu però un grande maestro del digiuno. Egli stesso, come è noto, digiunò per quaranta giorni nel deserto e si pronunciò più di una volta su questo importante argomento.

[…] La Quaresima in quanto preparazione alla Settimana santa della Passione del Signore e in quanto imitazione del digiuno dei quaranta giorni che Gesù compì nel deserto, è chiaramente un periodo centrato sulla figura di Cristo e sulla sua morte redentrice. Tuttavia, al di là di questa specificità cristologica, la Quaresima è un tempo comunque di conversione, di ritorno a Dio, di ripensamento, di pentimento; è un tempo per riflettere sul cammino della propria vita, sul senso della propria esistenza, è un’occasione per fermarsi e chiedersi: dove sto andando? A che servono le attività che occupano tutta la mia vita, il lavoro, i divertimenti, gli impegni? Qual è il senso di tutto ciò? Quale ruolo ha Dio nella mia vita?


(tratto da Dag Tessore, Il digiuno, Città Nuova, 2006)

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