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Cultura > Insolita Bibbia

Il serpente e la fatica di essere liberi

di Michele Genisio

- Fonte: Città Nuova

L’enigmatica figura biblica analizzata nel suo significato più profondo e fuori dagli stereotipi

serpente
Foto Pixabay

Un giorno mio figlio tornò a casa dalla lezione di catechismo perplesso. Aveva fatto una domanda e la catechista non aveva saputo rispondergli in modo soddisfacente. Aveva chiesto: «Ma se quello era il paradiso, che ci faceva lì il diavolo?» Evidentemente avevano parlato della storia di Adamo ed Eva e lui aveva associato alcune informazioni. Come è pensiero diffuso, aveva equiparato il giardino di Eden al paradiso e il serpente al diavolo. Anche se la cosa non è immediata, la sua era una buona domanda. Anzi, la domanda contro cui si sono infranti i pensieri di molti.

Non ci addentriamo in discorsi teologici e filosofici, qui cerchiamo solamente di fare la conoscenza con un personaggio che nelle prime pagine della Bibbia ha una posizione di gran rilievo. Il signor serpente.

La Bibbia non parla di “paradiso terrestre”. Per indicare l’Eden usa il termine ebraico pardès che deriva dal persiano e significa “giardino”, “aranceto”. Certo che, per gente come gli ebrei, abituati a vivere in territori desertici, il giardino rappresentava il non plus ultra… un vero paradiso! In quel giardino lussureggiante, tra i due umani e i tanti animali, ci stava anche lui. Il serpente. Che aspetto aveva? Era una proletaria biscia, un sinuoso cobra o l’estinto Titanoboa, il serpente più lungo al mondo? Non lo sappiamo. Ma di lui la Bibbia alcune cose le dice. Intanto che parlava. Per quanto ne sappiamo, oltre a Dio e ai due umani, era l’unico in quel posto che pronunciasse parola.

Si può inoltre dedurre che fosse di aspetto piacevole: se non lo fosse stato, Eva sarebbe scappata impaurita di fronte al rettile invece di mettersi a chiacchierare con lui. La Bibbia dice inoltre che il serpente era astuto. Cioè sapiente. Infatti si rivolge alla donna e in poche parole, con acume e forza di persuasione, le presenta una visione alternativa del mondo e Dio. Il testo fornisce anche un altro particolare. Il serpente, quando sarà maledetto da Dio, riceverà una terribile punizione: dovrà strisciare sul ventre sulla scomoda terra e ingoiare polvere per tutti i giorni della sua vita. Che significa? Che prima della maledizione aveva le zampe? O che era una specie di gigantesco millepiedi? O che aveva fattezze umane? Non lo sappiamo. Ma l’autore biblico non aveva in testa nessuna di queste domande quando scrisse. La sua motivazione era ben altra. Voleva spiegare perché accadano certe cose nella vita, come la presenza del male. Sebbene in certe culture il serpente godesse di grande prestigio – come tra gli egiziani o tra gli aztechi che veneravano il rettile piumato Quetzalcoatl –, fra gli antichi ebrei aveva una pessima fama. Per loro non era associato al diavolo – questa sarà una interpretazione successiva – ma rappresentava i culti idolatri delle vicine popolazioni cananee che elevavano quell’animale a simbolo di fertilità e immortalità. Per gli israeliti era quindi segno d’idolatria, il più grande dei mali. Inoltre la parola ebraica che noi traduciamo come “serpente” significa anche “indurre in tentazione”. Alla prima audience della Bibbia non restavano dubbi. La simbologia era potente: il serpente era colui che si opponeva subdolamente a Dio.

Ma la domanda di partenza rimane. Che ci faceva lì, in quel luogo idilliaco, dove l’uomo amava la donna e lavorava la terra senza sudare mentre scambiava due parole con Dio che passeggiava nel giardino? Si era infilato lì da qualche mondo altro? No. La Bibbia dice che era anch’esso stato creato da Dio. Strano. Dio voleva farsi del male da solo? Perché aveva dato vita a qualcuno che avrebbe rovinato il mondo ideale appena realizzato? Una risposta si può azzardare. Dio aveva messo nella creazione un principio che gli era particolarmente caro. La libertà. Un dono grandioso. Che alle volte spaventa. «Perché essere liberi non è facile», dice Benigni nel suo monologo su Mosè, «perché la libertà è faticosa, vuol dire crescere, essere uomini, responsabili delle proprie scelte. Per questo tanti non la vogliono». Ma Dio vuole proprio che impariamo la libertà. Ci tiene a tal punto da correre il rischio che qualcuno la usi contro di lui. Come ha fatto il serpente. La tradizione ebraica vede in lui lo yetzer harà, l’istinto malvagio. Ma lo yetzer harà è anche l’istinto vitale. Nella vita inaugurata fuori dell’Eden, l’istinto malvagio e quello vitale diventano inscindibili. È bene farsene una ragione, dicono i saggi ebrei: l’uno non può esistere senza l’altro. Ma gli umani devono controllare l’istinto malvagio. Usando al meglio la libertà.

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