Il seme e l’albero

All’inizio di ogni opera di Dio c’è un’ispirazione, un carisma, ossia un dono dello Spirito Santo. Lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere sotto la forma del santo Vangelo, testimonia esplicitamente Francesco d’Assisi, chiamando rivelazione l’impulso che lo spinge a intraprendere un nuovo cammino nella Chiesa da cui sarebbe nato il suo movimento. Ai nostri giorni la petite soeur Magdeleine si esprime in termini analoghi quando scrive che la sua fraternità è stata voluta dallo Spirito in quanto me l’ha ispirata con la forza dell’Amore… Non ho avuto molto da riflettere, perché tutto mi si imponeva, con la luminosità e la rapidità di un lampo. Per questa forte presenza dello Spirito il periodo degli inizi di ogni movimento si caratterizza per una forte idealità, una fede capace di spostare le montagne delle difficoltà, delle incomprensione che sorgono attorno, per un entusiasmo che non porta a calcolare le forze, che fa ritenere tutto possibile. Il fondatore è guidato da una luce penetrante, che gli dà di comprendere il Vangelo con sguardo nuovo, di coglierne appelli esigenti e vigorosi, di tradurlo in vita e in opere. I suoi compagni lo seguono con fiducia e guardano a lui come al modello. E quando l’iniziatore muore? A partire da Max Weber, la sociologia ha studiato a fondo il momento di passaggio dagli inizi carismatici di una qualsiasi istituzione al momento successivo. Gli storici della vita religiosa si sono avvalsi di queste analisi per rileggere il cammino degli istituti religiosi. Discorsi analoghi possono farsi per i movimenti ecclesiali che più di recente sono emersi. Dalla fase carismatica a quella istituzionale, così si può sintetizzare quanto avviene al momento della morte di un fondatore. Finché il fondatore è vivo, anche se già si sono stabilite le regole, di fatto egli, con la sua vita e il suo esempio, è la norma del gruppo, la regola vivendi te. La sua interpretazione del Vangelo e la sua esperienza religiosa si presentano ai primi compagni come un ideale coinvolgente. Nella fase successiva si avverte la necessità di confrontarsi più direttamente con gli statuti scritti, che cominciano a moltiplicarsi. Questo sia per sopperire a un inevitabile calo di tensione rispetto agli inizi, sia per evitare interpretazioni arbitrarie o personali della forma di vita proposta dal fondatore. Si assiste poi ad una più organica divisione dei compiti. Nel periodo fondativo i ruoli erano facilmente intercambiabili. Più che l’efficienza si cercava la testimonianza, la presenza significativa in un determinato settore. Con il tempo emerge la coscienza che questo indirizzo potrebbe portare allo spreco di energie, alla non piena utilizzazione delle qualità dei singoli. Ci si specializza per assicurare un migliore risultato, operazione che richiede una più lunga preparazione. Alla lettura sociologica si deve affiancarne una più evangelica, partendo dalla parabola del chicco di grano che deve cadere in terra e morire per portare frutto. La morte del fondatore è una perdita dolorosa per l’istituto o il movimento e nello stesso tempo l’inizio di una nuova fecondità. Sembra di sentir riecheggiare le parole di Gesù: È bene che io me ne vada, altrimenti non potrà venire a voi lo Spirito ; Farete cose più grandi di me. Sembra quasi che perché il carisma possa sprigionare tutta la sua creatività sia necessario il dono estremo della vita da parte del fondatore. Lo Spirito che lo ha illuminato e animato si diffonde adesso su tutta la famiglia da lui nata: il carisma del fondatore diventa il carisma dell’istituto o del movimento, quasi rifrazione collettiva di quello, sviluppato dalla vita, dall’esperienza, dagli apporti personali di quanti lo Spirito continua a chiamare: il seme diventa albero. Soltanto l’intera storia di un istituto o movimento, con le nuove molteplici opere, l’esperienza dei suoi santi, le inculturazioni in ambienti e situazioni sempre nuove, renderà ragione della densità, ricchezza e potenzialità racchiusa nel carisma iniziale. Che mistero – scriveva la petite soeur Magdeleine – tutte queste vocazioni che il Signore mi aveva dato (intendeva qui parlare dei molteplici aspetti della sua vocazione, ndr), ma che ero del tutto incapace di realizzare in una vita sola e che, a poco a poco, si realizzano attraverso le mie piccole sorelle. Il beato Giacomo Alberione diceva da parte sua che neppure in Paradiso si sarebbe capito appieno la vocazione della Famiglia paolina, a cui egli aveva dato vita, tanto essa era grande. A mano a mano che l’albero cresce le nuove generazioni non dovranno mai dimenticare le radici. Anche questo è messaggio evangelico. Subito dopo la sua morte e risurrezione Gesù dà infatti un importante appuntamento ai suoi discepoli: li incontrerà di nuovo in Galilea. Perché da Gerusalemme devono scendere in Galilea per incontrare il Signore risorto? Perché là tutto era incominciato e da là essi debbono ripartire, imparare di nuovo a seguirlo, anche se ora in modo nuovo. Infatti Gesù dopo la risurrezione non è più come prima, non lo si può più seguire lungo le strade della Galilea, ha superato le barriere del tempo e dello spazio rendendosi presente nel cuore dei fedeli, ovunque essi siano. Egli vive ormai nella dimensione dello Spirito, ed è ad ognuno più intimo che mai. Anche ogni fondatore dà il suo appuntamento in Galilea, alle origini carismatiche, perché quella sua prima irripetibile esperienza, da cui tutto ebbe inizio, rimane paradigmatica per i secoli, per ogni generazione. Sempre dovremo tornare alla piccola-grande storia degli inizi in cui tutto è racchiuso, come in un seme fecondo.

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