Il segreto dell’apostolo

Eros, phil, agape: tre dimensioni dell'amore in san Paolo, alle radici della sua grande opera di apostolo.
Il segreto dell'apostolo

 

Ci sono dodici apostoli, ma quando si nomina “l’apostolo”, non ci si riferisce a nessuno dei dodici, ma semplicemente a Paolo, come lui stesso si presenta, in senso assoluto: «Io, Paolo, apostolo». Un appellativo significativo, che dice identificazione tra persona e missione. Più ancora, vi è identificazione tra la missione di apostolo e il contenuto dell’annuncio: quel Cristo con il quale egli si è ormai immedesimato. Quale il segreto della sua grande opera di apostolo? Forse la si può individuare in tre dimensioni dell’amore espresse dalle parole: eros, philía, agape.

 

Eros: la passione per l’evangelizzazione

 

Paolo non ha mai usato la parola eros, comunissima nella grecità di allora e completamente assente dal vocabolario del Nuovo Testamento. Ma se essa indica l’amore in ricerca, la bramosia del possesso, la passione per qualcosa o per qualcuno, essa si rivela particolarmente adatta per individuare la molla che ha spinto Paolo ad una delle più straordinarie avventure umane.

Come altrimenti comprendere il suo rapporto con Cristo, che egli cerca costantemente e per la cui conoscenza è pronto a lasciare tutto? La passione e lo zelo che lo incalzava alla persecuzione dei cristiani è lo stesso che lo spinge verso Gesù e verso i pagani per far loro conoscere il suo Signore.

«È un dovere per me l’evangelizzazione», leggevamo nella precedente traduzione Cei. Essa metteva in luce l’oggettività dell’incarico affidatogli da Dio davanti al quale non può tirarsi indietro. Paolo sarebbe come un forzato del Vangelo. La nuova traduzione – «è una necessità» – pone l’accento sul risultato della scelta da parte di Dio, sulla soggettività dell’esperienza di Paolo: l’annuncio del Vangelo – proprio grazie al mandato ricevuto – gli è divenuto una necessità di cui non può fare a meno: «Guai a me se non predicassi il Vangelo». Più che un dovere sembra essere un piacere. Ne nasce un’ebbrezza, una profonda appagante beatitudine, che dà a Paolo la certezza che quella è la strada da percorrere e che egli è nato per quell’ideale.

 

Philìa: una evangelizzazione fatta insieme

 

Una grande passione non basta. Occorre saperla condividere e appassionare altri allo stesso ideale. Spesso si pensa a Paolo come a un grande genio incompreso, a un eroe solitario. Invece si circonda di numerosi collaboratori con i quali vive in comunione e condivide la passione per Gesù e l’annuncio del Vangelo, la preoccupazione pastorale, il peso del lavoro. Opera in squadra. Nelle sue lettere e negli Atti degli Apostoli compaiono almeno una sessantina di nomi di quelli che lui chiama fratelli, collaboratori, “compagni d’armi”.

Il modo con cui Paolo parla di loro fa intravedere i profondi legami d’amore che univano i membri del gruppo. Sa coinvolgerli nel suo progetto, infonde in essi le medesime idealità, li fa vibrare all’unisono. C’è un rapporto di amicizia? La parola philìa, così cara al mondo greco, è nuovamente assente nell’epistolario paolino, al pari di eros. Eppure la realtà è presentissima. Tutto il gruppo è legato da quel particolare affetto che secondo Paolo caratterizza i cristiani: «affezionati gli uni gli altri in amore fraterno» (philo-storgoi); distinguendoli dai pagani, che sono invece a-storgoi, senza amore.

Un riflesso di questo affetto lo si può cogliere attraverso i sentimenti che intercorrono o che Paolo vorrebbe ci fossero tra lui e i membri delle sue comunità, considerati tutti suoi collaboratori nell’annuncio del Vangelo. Ai corinti chiede di aprire il cuore e di contraccambiare l’amore ed è contento di poter contare totalmente su di loro, così come del fatto che lo ricordano. Verso i tessalonicesi si dichiara amorevole, affezionato, come una madre che nutre e cura i propri figli. È impaziente, vuole avere subito notizie di tutti.

 

Agape: dare la vita per l’evangelizzazione

 

La passione che ha mosso l’Apostolo rischia più volte di raggelarsi sotto le docce fredde a cui è costantemente sottoposto lungo il suo ministero: fatiche, prigionie, percosse, lapidazione, naufragi, «pericoli in città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare… Fatiche e arduo lavoro, spesso veglie, fame e sete, spesso senza cibo, esposto al freddo e senza di che coprirsi», oppressioni oltre misura, al di là delle sue stesse forze, da disperare perfino della vita.

Sperimenta poi il peso delle proprie debolezze: si sente come un vaso di creta, ha infissa una spina nella carne. Lo si accusa di doppiezza, di non essere un brillante oratore. È abbandonato dai suoi compagni. E poi l’assillo quotidiano per le sue comunità.

Non basta più l’eros focoso a spingerlo, non più la philía con i compagni a sostenerlo. Deve subentrare un’altra fondamentale espressione dell’amore, l’agape, quella che caratterizza l’amore stesso di Gesù: un amore gratuito, generoso, disinteressato, pronto a dare la vita. Questa parola sì che ritorna sotto la penna dell’apostolo, e quante volte! È il suo segreto: con-crocifisso con Cristo, ne condivide l’amore oblativo, fino a portare nel suo corpo la morte di lui. Forte di questo amore può affrontare ogni avversità.

Soltanto con l’agape divina il sogno si fa realtà e la missione raggiunge il suo esito finale. È l’agape che dona costanza, capacità di tenuta nonostante tutto e tutti, al punto da trovare forza nella propria debolezza. È così che si sprigiona la fecondità apostolica, non più legata alle tecniche, alle organizzazioni, all’efficienza, ma alla logica del chicco di grano che cade in terra e muore per dar vita alla spiga. È la legge del mistero pasquale di morte e di vita che Paolo riattualizza in sé, fino a compiere quanto manca alla passione di Cristo.

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