Marzo 1945. Ancora i fuochi della Seconda guerra mondiale non s’erano spenti in molte parti d’Europa, ancora imperversavano atrocità e massacri, quando a New York apparve simultaneamente in traduzione inglese e in originale tedesco, per i tipi di Pantheon Books, il romanzo di un immigrato viennese fuggito dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938: era il sessantenne Hermann Broch, scampato alle persecuzioni razziali per le sue radici ebraiche. In oltre quattrocento pagine nella nuova traduzione edita da Bibliotheka, l’autore stempera le ultime 18 ore di vita del poeta latino Publio Virgilio Marone a Brindisi, dove era sbarcato febbricitante di ritorno da un soggiorno ad Atene.
Frutto di anni di lavoro, pause e riprese, La morte di Virgilio apparve subito – a chi si aspettava un romanzo storico come Gli ultimi giorni di Pompei, Ben Hur e Quo vadis? – un libro illeggibile per il suo linguaggio stravagante, i lunghissimi e tortuosi periodi, la mancanza di accapo per pagine e pagine ecc. Altri invece salutarono quest’opera così audace dal punto di vista formale – Broch la considerava un poema lirico piuttosto che un testo in prosa – come un capolavoro. Presto però su questo capolavoro o romanzo fallito il silenzio calò, nonostante l’ammirazione di Albert Einstein e l’ambigua formula con cui Thomas Mann, il celebre autore dei Buddenbrock, lo definì come «uno dei più inusitati e radicali esperimenti mai intrapresi con il duttile strumento del romanzo».
In effetti, La morte di Virgilio richiede da parte del lettore un surplus di impegno per entrare nello stile, nel ritmo e nel pensiero dell’autore. Perché poi il futuro candidato al Premio Nobel nel 1950 sentì il bisogno di evocare, proprio in quella temperie storica, la remota figura del cantore dell’Eneide? Evidentemente Virgilio, figlio di un possidente espropriato dei suoi campi, ricordava al disincantato Broch la sua stessa condizione di esule e, insieme, di scrittore patriottico e conservatore che, sconvolto dalla deriva assolutista che negli anni ’30 aveva portato l’Europa allo sbando, s’interrogava sull’efficacia di arte e bellezza nel formare le coscienze e riscattare l’uomo dalle sue passioni degradanti. Non a caso tra i molti interessi di Broch c’erano la politica e la psicologia. Un suo saggio sul comportamento di massa, rimasto incompiuto, era destinato a far parte di un progetto più ambizioso inteso a difendere la democrazia, i diritti e la dignità umani in un’era post-religiosa.
Strutturato in quattro parti «collegate tra loro come movimenti di una sinfonia o di un quartetto», per lunghi tratti La morte di Virgilio è scritta in forma di monologo interiore. I personaggi – fra questi gli amici Lucio Vario Rufo, Plozio Tucca e Ottaviano Augusto – appaiono per poi dissolversi come irreali in mezzo alle fantasticherie febbrili di Virgilio morente. Fulcro del racconto è la decisione del poeta, sconvolto dalla funesta riuscita della pax augustea da lui glorificata, di distruggere il suo poema epico ancora privo dell’ultima revisione, in ciò dissuaso dagli amici e dallo stesso Cesare Augusto a cui l’aveva dedicato.
Tra le parti più accessibili del romanzo, i lunghi colloqui tra poeta e imperatore. Eccone qui un esempio:
“Cesare ignorò l’obiezione: «La tua opera è Roma, e quindi è proprietà del popolo romano e dello Stato romano, che tu servi, come tutti dobbiamo servirlo… solo ciò che non è stato fatto appartiene solo a noi, forse anche ciò che è fallito e ciò che non ha dato esiti; ma ciò che è stato veramente fatto una volta appartiene a tutti, appartiene al mondo».
«Cesare, la mia opera è incompiuta; è terribilmente incompiuta e nessuno vuole credermi!».
Sul volto impenetrabile brillò di nuovo uno sguardo familiarmente famigliare, con l’aggiunta di una lieve aria di superiorità: «Conosciamo tutti i tuoi sconforti e le tue disperazioni, Virgilio, ed è comprensibile che oggi, mentre giaci malato, ti colpiscano in modo particolarmente grave; tuttavia, vuoi anche sfruttarli abilmente per le tue oscure, almeno per me ancora oscure intenzioni…».
«Non è lo sconforto che intendi e da cui tu sufficientemente spesso mi hai salvato. Ottaviano, non è sconforto per l’incompiuto e l’imperfettibile… no, guardo alla mia vita e vedo il non fatto».
«Su questo devi rassegnarti… ogni vita e opera umana nascondono in sé un residuo di non fatto; è la sorte imposta a tutti noi». Ciò fu detto con tristezza”.
Nella visionaria parte finale, in preda alle ultime allucinazioni prima di morire nel 19 a. C. a 51 anni, Virgilio si crede in viaggio verso una terra lontana. Oggi sulla presunta tomba del poeta a Napoli, in un piccolo parco sulle pendici orientali di Posillipo che ospita anche il sepolcro di Leopardi, un epitaffio costituito da un distico elegiaco recita: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc / Parthenope; cecini pascua, rura, duces («Mantova mi ha dato i natali, la Puglia mi ha dato la morte e ora sono sepolto a Napoli; ho cantato i pascoli, i campi, i condottieri»).
Il lettore che, essendo riuscito a reggere la complessità della scrittura di Broch ne ha tratto stimoli a riflettere sulla storia del presente e a rileggere o leggere l’Eneide, avrà soddisfatto così almeno due degli intenti che immagino si fosse prefissato l’autore.